il Giornale, 15 agosto 2024
Verdi bisbetico non domato in fuga dalla sua Busseto
Nella piazza principale di Busseto domina una statua che fa memoria del figlio più illustre: Giuseppe Verdi. Lo scultore Sechi lo immortalò seduto perché, se l’avesse fatto in piedi, il Maestro se ne sarebbe andato. Di questo almeno sono convinti i bussetani. E a buon ragione, perché Verdi a Busseto non ci volle stare da vivo (quando si trasferì a Villa di Sant’Agata inviò al suo agente un biglietto di istruzioni che cominciava così: «Primo: togliere il mio domicilio da Busseto») e non ci volle rimanere neppure da morto. Come tanti grandi della storia, non fu profeta in patria. Senatore del Regno, acclamato dal pubblico e dalla critica, corteggiato da re e imperatori, ma inviso ai compaesani.
Giuseppe Francesco Fortunino Verdi nacque il 10 ottobre 1813 nella frazione delle Roncole, dove ancora esiste la casa che era anche l’osteria di suo padre Carlo: ma siccome siamo in Italia, e l’Italia è il paese dei campanili, quelli di Madonna dei Prati, un’altra frazione di Busseto, sostengono che la madre Luigia Uttini venne a scodellare il piccolo proprio da loro. E chissà chi ha ragione. Di certo, a Madonna dei Prati è legato un fatto che fu profetico sul rapporto fra il Maestro e il suo paese natale.
Accadde che il piccolo Verdi, un giorno in cui serviva messa come chierichetto nella chiesa di San Michele alle Roncole, fu rimproverato con un ceffone dal parroco don Giacomo Masini, che l’aveva visto distratto durante la funzione. Il bambino, che come caratterino era già Verdi, scagliò contro il prete una maledizione: «Ch’at ciàpa ’na sajéta!» (Che ti colpisca un fulmine!). Sta di fatto che pochi anni più tardi, il 14 settembre del 1828, durante la festa patronale di Madonna dei Prati, un fulmine si abbatté sul santuario, lasciando sei morti, tra cui proprio il don Masini. Si legge su una cronaca dell’epoca, intitolata “Avvenimenti funesti” e conservata nel registro della chiesa: «Destatosi fiero temporale mentre verso le tre pomeridiane si incominciavano i Vesperi, un fulmine caduto (...) uccise quattro preti e due scolari. Restava nel mezzo il Prevosto di Roncole Don Pietro Montanari, ed è rimasto illeso. A mano destra, e presso di lui Don Pietro Orzi, Arciprete di Frescarolo di anni sessanta, rimasto morto, era seduto, ed in aspetto di uomo che mediti. Presso di questo, e dalla parte del Vangelo, steso per terra morto, ma senza nessun segno, Don Luigi Menegalli, Arciprete di Semoriva di anni cinquanta; vicino a questo disteso pure per terra e morto, senza alterazione del corpo, Francesco Luzzi d’anni trentasei circa, sarto di professione, di Santa Croce di Zibello, senza segni esteriori. Seduto poi quasi presso la portiera che mette nel Santuario, morto, ma con sembianza d’uomo che placidamente dormisse, Bianchi Gaetano, nubile, sarto di professione, d’anni venticinque, delle Roncole. Dalla parte dell’Epistola (...) steso per terra, annerito (...) Don Bartolomeo Orioli, Arciprete di Spigarolo d’anni quaranta. Presso questo, morto, ma seduto, ed in aspetto d’uomo che soffra grandi dolori, e senza nessuna ferita stava il cadavere di Don Giacomo Masini, Cappellano di Roncole, d’anni cinquanta».
Quel giovinetto, che aveva imparato a suonare proprio a Madonna dei Prati sulla spinetta di un altro prete, don Paolo Costa, fu tuttavia notato da un commerciante di Busseto, Antonio Barezzi, che ne intuì il talento e ne pagò negli studi. Verdi, di Barezzi, sposò poi la figlia, Margherita, e con lei andò a tentar la fortuna a Milano.
Ma Milano non fu, nei primi tempi, benevola. Verdi fu dapprima respinto al Conservatorio; poi, nel giro di due anni, dal 1938 al 1940, a Milano morirono i suoi due figli Virginia e Icilio, e la moglie Margherita: di malattia, ma fors’anche di stenti, perché Verdi non era ancora il Maestro e la sua opera Un giorno di regno, sepolta dai fischi, era rimasta in vita una sola serata. Solo dopo 18 mesi arrivarono il Nabucco, il successo, la fama, i guadagni: e Verdi cominciò ad amare molto Milano, come Milano cominciò ad amare molto Verdi.
Non così si può dier del rapporto con Busseto, dove, tornato ormai famoso, il Maestro trovò tutt’altro che le aure dolci del suolo natal. Si ripresentò nel 1847 accompagnato da Giuseppina Strepponi, la soprano del Nabucco, con la quale cominciò la convivenza more uxorio a Palazzo Orlandi, sotto i portici di via Roma. E i bussetani non gradirono: forse perché era ancora troppo viva la memoria della povera Margherita; forse, e anzi più probabilmente, perché la Strepponi aveva già avuto, e poi abbandonato, due figli «illegittimi», come si diceva allora. Il giornalista Egidio Bandini, cantore della Bassa, riferisce di un fatto che egli pure non sa se definir realtà o leggenda: «Alla Strepponi fu inviato un cordiale messaggio di benvenuta infrangendo una finestra di casa con un sasso avvolto in un biglietto sul quale era scritto: Giuseppina at ta si spuseda, ma ti si sempar ’na gran putana». Vera o no che sia la storia del biglietto, il clima quello era. Verdi si preoccupò di chiarire la situazione solamente con il suo ex suocero e benefattore Antonio Barezzi, scrivendogli: «Nella mia casa vive una signora libera ed indipendente, amante come me della vita solitaria. Né lei né io dobbiamo dare spiegazioni ad alcuno delle nostre azioni».
Pochi anni dopo il Maestro decise però che la misura era colma. Nel 1851 comprò la cascina che diventerà la sua magnifica Villa di Sant’Agata e che aveva, ai suoi occhi, un grande pregio: era, per pochi metri, in provincia di Piacenza, al di là dell’ingrata provincia di Parma. Lì, alla Villa di Sant’Agata, il Maestro avrebbe ospitato amici, librettisti, cantanti, editori e impresari. Lì, e nella vicina e amata Cremona, avrebbe trascorso le ore più liete, consumato i pasti più gustosi.
l 13 marzo 1868 scrisse al conte Arrivabene, che gli chiedeva di inviargli qualche specialità di Cremona: «Sto proprio almanaccando cosa vi può essere di bello e di buono a Cremona. I torroni, la mostarda ed il Torrazzo. Diavolo! Non vorrai già che ti mandi il Torrazzo in una lettera!... Non ho mai sentito parlare di questi meravigliosi biscotti di Cremona, ma stà tranquillo che alla prima che andrò in quella città io stesso andrò in tutti i fornai pasticceri eccetera e se vi saranno tu li avrai».
E non si pensi che Parma, oggi tanto fiera di Verdi da dedicargli un festival e una panchina davanti a San Francesco del Prato, sia stata più generosa di Busseto. Ancora nel 1945, con il pretesto di mettere ordine dopo i bombardamenti, i parmigiani pensarono bene di demolire il monumento davanti alla stazione che lo Ximenes aveva dedicato al Maestro e che in città veniva chiamato il Cementissimo. «È un villano delle Roncole», aveva del resto detto di lui Maria Luigia, la Duchessa che gli preferì, come musicista di corte, un tale Speranza. Diventato celeberrimo, Verdi se ne ricordò, rifiutandosi sempre di dirigere al Regio, così come sempre si rifiutò di mettere piede nel teatrino di Busseto a lui dedicato.
Patria crudele. Va però detto che il Maestro non fece molto per farsi benvolere. Il carattere era pessimo, le gesta non sempre mirabili. Racconta ancora oggi, la gente della Bassa, che qualche figlio illegittimo Verdi lo seminò sicuramente. A Bersano, sulla strada percorsa in calesse per andare a Fiorenzuola a prendere il treno per Milano, c’era una bambina che Verdi si fermava sempre a salutare e omaggiare d’una caramella. Un giorno la madre disse alla bimba: «La prossima volta, digli: grazie, papà». Lei lo fece. E lui, da quella volta, mai più si fermò.