La Stampa, 15 agosto 2024
Intervista a Emanuele Salce
«C’erano una volta quattro amici che nel 1942, in piena guerra mondiale, si iscrissero all’accademia d’Arte Drammatica. Si chiamavano Luigi Squarzina, Adolfo Celi, Luciano Salce, Vittorio Gassman. Sono diventati celebri nel mondo dello spettacolo italiano e non solo italiano. Gli ultimi due sono stati particolarmente importanti per me, perché a vario titolo sono stati entrambi mio padre. Oppure non lo sono stati affatto. Oppure tutte e due le cose insieme: e forse la risposta giusta è proprio questa».
Quando parla di Luciano Salce e di Vittorio Gassman, Emanuele Salce lo fa con l’ironia di Luciano e la voce di Gassman. I due sono stati in ordine cronologico i mariti di Diletta D’Andrea (morta il 18 agosto, ndc): l’attrice si è separata da Salce quando Emanuele aveva due anni. «Certo, il lascito più visibile dell’aver vissuto vent’anni con Gassman è certamente la voce. Lui anche in famiglia parlava con quella dizione importante, che lo ha reso famoso. Diciamo che io credevo che si parlasse così, ho assorbito quella voce impostata. Solo che Vittorio la rendeva potente, maestosa; io ho sempre paura che mi giunga qualche pernacchia. Mi considero la copia cinese di Vittorio, nel senso che i cinesi invadono i mercati di falsi griffati, ho sempre avuto l’impressione che questo timbro vocale fosse all’esterno vissuto così».
Sull’inadeguatezza tu Emanuele ci hai sempre giocato: Diario di un inadeguato è il titolo che hai portato recentemente a teatro.
«È uno spettacolo che affronta con ironia il tema della depressione. Tutti sanno che Vittorio ha dovuto convivere con la depressione, ma anche io ci sono passato. Credo che l’analista fosse già presente quando mi cambiavano sul fasciatoio da neonato. Non poteva non essere così, con due modelli cosi alti, difficili da raggiungere, al tempo stesso invadenti e assenti. Loro erano l’ultimo piano di un grattacielo, io ho dovuto affrontare tutte le scale partendo dal piano terra, e penso che a quell’altezza non arriverò mai. Però adesso ne parlo, la fase più critica credo sia superata. E ne parlo con l’ironia che Luciano metteva in ogni cosa che faceva».
Con Luciano ci parlavi? E come viveva il fatto che il suo amico Gassman si fosse sposato con sua moglie?
«Per un certo periodo non si sono visti anche per orgoglio, poi si sono resi conto che amavano la stessa donna. Non erano due tipi da tenersi il muso. Io ho vissuto in una delle prime famiglie allargate d’Italia. Ero con Vittorio, con mia madre, con Jacopo che era figlio di entrambi e con Alessandro che invece è figlio di Vittorio e di Juliette Maynel: vedevo mio padre nei momenti e negli spazi che toccano ai genitori separati. La regola a casa nostra era molto semplice. Fino a 18 anni tutti insieme, compiuto il diciottesimo ognuno per conto suo. Non è stato semplice, ma era una regola molto chiara».
E in questi momenti insieme, come stavi con Luciano?
«Lui parlava pochissimo di sé e della vita difficile che aveva vissuto. Sua madre è morta quasi subito dopo il parto, suo padre lo ha messo in collegio. Durante la guerra Vittorio è riuscito a farsi riformare, invece Luciano è stato arruolato e dopo l’8 settembre del 1943 è stato preso prigioniero dei tedeschi e deportato in Germania dove ha cercato per ben due volte di fuggire ed entrambe le volte è strato ripreso a causa di alcuni nostri connazionali che facevano il doppio gioco con i nazisti. È stato anche per un periodo a Dachau. La sua riservatezza è tale che, quando ho visto il suo diario (dove annotava tutto, ma proprio tutto, con precisione maniacale), ho visto che il periodo 1943-1945 è riassunto da una foto e da un solo appunto: “due anni difficili”. Talmente difficili che gli hanno cambiato per sempre il volto».
Lo chiamavano «l’uomo dalla bocca storta».
«Che è il titolo del documentario che gli ho dedicato. A 13 anni aveva avuto un incidente d’auto, gli fecero una protesi alla mandibola. Allora le facevano con l’oro, come i denti. Quando lo hanno catturato i nazisti gliel’hanno portata via, esattamente come hanno fatto con i denti degli altri deportati. La bocca così è rimasta storta per sempre, è stata il suo tratto distintivo, la sua riconoscibilità immediata».
Una vita difficile che certo ha avuto conseguenze nel rapporto con il giovane Emanuele...
«Anche con me ci ha messo molto a capire cosa doveva fare un padre con suo figlio. Io quell’impegno l’ho capito, ma comunque avevo delle acredini, provavo difficoltà quando dovevo andare a trovarlo, poi quando ero con lui stavo comunque bene. Si è impegnato per amarmi, se non avesse avuto nel 1943 un ictus che lo ha colpito severamente forse ci sarebbe riuscito. Adesso mi sento riconciliato con lui, ogni volta che lo vedo nei film o nei vecchi spettacoli televisivi mi fa divertire, tantissimo. Mi affascina la sua ironia, è il lascito maggiore che mi ha lasciato».
E Vittorio cosa ti ha lasciato?
«Be’, come dicevamo, la voce... Scherzi a parte, la disciplina o meglio l’autodisciplina. Su questo era tremendo, quasi maniacale. Grazie a lui mi sono iscritto al Centro Sperimentale al corso di regia e facendo poi l’aiuto per Scola, Risi e molti altri. E la depressione l’ho condivisa con lui, ne sono uscito anche grazie a questo strano secondo papà che la depressione la conosceva bene...».