Corriere della Sera, 15 agosto 2024
Intervista a Sarah Fahr
Non ha ancora 23 anni ma Sarah Fahr sembra aver già vissuto mille vite. Dal legame con la Baviera a quel sogno di diventare ginnasta che mal si conciliava con una struttura fisica più da pallavolista, alla doppia rottura del crociato che l’ha tenuta ferma per mesi fino a farle pensare di smettere. Poi il rapporto non sano con il cibo che è diventato, adesso che è tutto risolto, nuova fonte di forza. Fino all’apoteosi dell’oro olimpico.
Ha già vinto scudetti e Champions, ma che si prova a essere campioni olimpici?
«I Giochi sono un amplificatore di emozioni e il ruolo di tutto lo staff era di cercare di normalizzarle. Poi tutto è esploso dopo la finale: è una gioia immensa, indescrivibile».
Ricorda il primo pensiero dopo l’ultimo punto di semifinale e finale?
«Dopo la semifinale è stato “Wow, non ci credo, abbiamo vinto la prima medaglia del volley femminile italiano”. Poi ha preso spazio la consapevolezza che non avevamo ancora finito».
Dopo l’ultimo pallone con gli Usa sì, però.
«Ho un po’ di nebbia su quell’istante, ricordo le lacrime di gioia. Molte di noi non erano riuscite a dormire dopo la semifinale e non è stato semplice gestire l’euforia per il traguardo raggiunto e la necessità di essere concentrate per finire il lavoro. Anche perché gli ultimi anni sono stati complicati per la squadra, eravamo sempre sulla bocca di tutti. Ho realizzato davvero solo quando sono arrivata in Italia e in tantissimi hanno cominciato a fermarmi per farmi i complimenti o chiedere una foto».
Che eredità lascerà questa medaglia?
«Ha acceso riflettori sul volley che spero restino accesi a lungo. Sono felice dell’attenzione mediatica e mi auguro che anche i nostri campionati possano beneficiarne. Abbiamo una pallavolo di altissimo livello e il nostro compito sarà far appassionare ancora di più al nostro sport».
E questa Nazionale? Qual è stata la chiave della svolta?
«L’anno scorso non c’ero, ma è evidente che c’era qualcosa da sistemare. Dal nostro primo incontro, Velasco ha mostrato di avere le idee chiare su tutto, sapeva cosa voleva da ognuna di noi, come voleva lavorare. Ha dato regole precise e ha messo il gruppo nelle condizioni di ritrovare i suoi equilibri: ci ha fatto stare tranquille, il resto è storia».
È un po’ la vittoria del riscatto per tutte le sofferenze degli ultimi anni?
«Non proprio, anche perché, guardando al mio passato in maniera lucida, mi rendo conto che quelle sofferenze, anche atroci, mi hanno aiutata a crescere. Senza quel conflitto col mio corpo, la lotta col cibo, i due infortuni gravi non sarei la donna e l’atleta che sono ora».
Quando è iniziato tutto?
«L’adolescenza è stata la prima grande rivoluzione, quando il tuo corpo comincia a cambiare e ti sembra di vedere il giudizio negli occhi degli altri. Poi la pandemia, col passaggio dal Club Italia a Conegliano nella stagione dell’Olimpiade. Volevo sentirmi all’altezza, essere più magra, più atletica, più tutto. Ho iniziato una dieta sempre più ferrea: mi logorava nell’anima. Ci è voluto un po’ per capire che ero nel pieno di un disturbo dell’alimentazione. E sono sicura sia stata una delle cause del primo infortunio».
Come ne è uscita?
«Grazie a tutte le persone che mi vogliono bene. In quell’anno ho conosciuto anche Nicolò, il mio fidanzato, che mi ha presa per mano, mi ha riportata sulla terra e mi ha accompagnato fuori dal tunnel. Da un paio d’anni ne sono fuori e ne parlo perché spero che la mia storia possa aiutare tante altre persone: se ne può uscire».
E si può anche risorgere dopo due infortuni terribili come i suoi.
«La seconda volta che mi sono rotta il crociato volevo smettere. La prima l’avevo affrontata col sorriso, la seconda ero disperata, svuotata. Stavo mollando, finché non ho incontrato un libraio di Conegliano sul treno per andare a farmi operare – controvoglia – a Roma. Abbiamo iniziato a chiacchierare. Mi ha detto che era un tifoso dell’Imoco e ho cominciato a vomitargli addosso il mio dolore. Mi aspettavo la sua compassione, invece era impassibile, quasi non gli importasse di quello che stavo raccontando. Poi mi ha detto che era semiparalizzato e che aveva ripreso a camminare dopo 18 anni di fisioterapia. Da allora tutto ha trovato un senso nuovo».
E oggi la campionessa olimpica a chi vuole dire grazie?
«Ai miei nonni che sono i miei primi tifosi e a mio nonno in particolare che è venuto a Parigi. A Nicolò. Alla mia famiglia e al mio club, Conegliano, che mi ha aspettato e mi ha rinnovato il contratto anche da infortunata. Sono una donna fortunata».