Corriere della Sera, 15 agosto 2024
I film tratti da Il grande Gatsby
Nel ciclico dibattito attorno al «Grande Romanzo Americano» non mancano mai Moby-Dick di Herman Melville, Huckleberry Finn di Mark Twain e Il grande Gatsby di Fitzgerald. Sui primi due non c’è niente da dire: anche il sommo William Faulkner li riconosceva come capostipiti diretti di tutta la letteratura statunitense, e altri due Nobel per la letteratura americani, Ernest Hemingway e Bob Dylan, si son detti d’accordo (il primo preferiva Twain, il secondo Melville) nel considerarli lo yin e lo yang della letteratura nordamericana. Quando invece si arriva a Il grande Gatsby, le cose cambiano: privo dell’epica e della mistica di Moby-Dick, sprovvisto dell’avventura e dell’ironia di Huckleberry Finn e dotato di una trama meno incisiva, si è conquistato il posto accanto agli altri due «GRA» grazie ai temi – il mito dell’uomo che si è fatto da solo, l’oscurità che si cela dietro al «sogno americano», il ruolo del denaro nella psiche del Paese —, e ancor più grazie al suo ritratto di un’«era del jazz» tutta feste, eccessi e stile, e al fascino dei suoi protagonisti, su tutti Jay Gatsby e Daisy Buchanan.
Si capisce che con simili premesse il romanzo abbia sempre attratto l’attenzione dei registi, tant’è che Il grande Gatsby vanta ben undici adattamenti: due radiofonici, due teatrali e sette su schermo (cinque al cinema, due in tv).
Il primo film arrivò nel 1926, solo un anno dopo l’uscita del romanzo. Lo diresse un tal Herbert Brenon, con l’attore Warner Baxter (futuro Oscar per Old Arizona) nella parte di Gatsby: la pellicola è oggi perduta, ma ci resta il giudizio di Scott e Zelda Fitzgerald: se ne andarono a metà proiezione e Zelda scrisse che lo aveva trovato «marcio, schifoso, orribile».
Ci riprovò nel 1949 il prolifico e per lo più dimenticato regista Elliot Nugent, ma la sceneggiatura fu riscritta così tanto per soddisfare la censura da pregiudicare in modo irreversibile il risultato.
Andò un po’ meglio nel 1974, col film di Jack Clayton scritto da Francis Ford Coppola sulla base di una bozza firmata da Truman Capote. Per il ruolo di Gatsby vennero vagliati Warren Beatty e Jack Nicholson, ma entrambi si tirarono indietro e toccò a Robert Redford, probabilmente un po’ troppo «buono» per un personaggio così sfuggente, mentre Mia Farrow diede vita a una Daisy splendida ma forse troppo manipolatrice. Il «New York Times» segò il film definendolo «ben recitato, ma privo di vita al pari di un cadavere ripescato dal fondo di una piscina».
Non benissimo anche il film tv a doppia produzione britannica e americana del 2000 (regia di Robert Markowitz; Toby Stephens nel ruolo di Jay Gatsby, Mira Sorvino in quello di Daisy Buchanan), definito «piatto» dal «New York Times», «privo di spirito» dal «Guardian» e «men che mediocre» dal «Boston Globe».
C’è poi G, del 2002, in cui il romanzo di Fitzgerald viene riproposto da Christopher Scott Cherot in epoca contemporanea e specificamente nel mondo dei produttori hip-hop: il risultato è meno peggio di quanto si potrebbe credere, e certo se la cava meglio di Affluenza, secondo dei due film tv, diretto da Kevin Asch nel 2014: qua i protagonisti sono ragazzini viziati di Long Island, in un clima che ricorda più Bret Easton Ellis che Francis Scott Fitzgerald, ma in fondo tradisce entrambi per l’insulsaggine di dialoghi e recitazione. Meglio rimanere nel 2013, e tenerci Il grande Gatsby di Baz Luhrmann, che non sarà il suo miglior film e presenterà anni Venti un po’ fantasiosi, ma azzecca il cast, con un’ottima Carey Mulligan e un Leo DiCaprio praticamente nato per il ruolo, e soprattutto becca in pieno l’atmosfera – che è poi, con questo romanzo, ciò che conta davvero.