Corriere della Sera, 15 agosto 2024
Il Ferragosto di Dacia Maraini: «Mi svegliai nel campo in Giappone. La guerra era finita, ero libera»
Che io ricordi il più felice Ferragosto della mia vita è legato al Giappone e alla fine della guerra. Una mattina ci siamo svegliati nel caldo e nelle pulci del campo di concentramento e non abbiamo più trovato i guardiani. Abbiamo spedito il più giovane prigioniero a chiedere cosa fosse successo e l’abbiamo visto tornare saltando come un canguro. Gridava: la guerra è finita, è finita. I guardiani non si sono piu visti e noi abbiamo cominciato a girare fra i campi di patate che avevamo sempre guardato da lontano, felici di esseri liberi ma senza sapere cosa avremmo dovuto fare. In cielo passavano degli aerei americani ma non trovavano il campo degli antifascisti italiani che era piccolo, fatto solo di diciotto persone, fra cui tre bambine piccole. Mia madre, ingegnosa e fattiva come sempre, nonostante il beriberi e lo scorbuto che le fiaccavano le gambe e le facevano girare la testa, è riuscita a mettere insieme una grande bandiera italiana e a stenderla in cima a una collina vicina. Infine un aereo ci ha visti, è tornato il giorno dopo e ha lanciato una decina di bidoni carichi di cibo e di abiti. I bidoni si sono spaccati sulle rocce e noi siamo stati immersi in un tripudio di polvere di piselli, fra torrentelli di Coca-Cola, in mezzo a centinaia di pacchetti di sigarette Pall Mall, di cioccolata, di chewingum. Una festa da paese di cuccagna, qualcosa che per degli affamati cronici come noi era un sogno sempre vagheggiato. Ma ricordo ancora la voce di mio padre che gridava: non mangiate, non mangiate! Perché i nostri stomaci ridotti a un piccolo fantasma sarebbero scoppiati se li avessimo improvvisamente riempiti. E per settimane abbiamo guardato quelle montagne di cibo, mettendo in bocca solo qualche pezzetto di butter cheese, un frammento di cioccolata, due sorsi di Coca-Cola. Il giorno dopo quel Ferragosto di gioia un gruppo di contadini giapponesi si è avvicinato al campo e noi abbiamo temuto qualche ostilità. Invece da vicino li abbiamo visti sorridere e poi uno di loro ha riferito alcune parole del discorso dell’imperatore ascoltato alla radio, dicendo di avere capito che la guerra era finita ma il discorso intero, fatto in antico giapponese, non l’avevano compreso. Non era assurdo? Dei contadini giapponesi venivano al campo dei prigionieri italiani per farsi spiegare le parole dell’imperatore farcite di antichi termini ormai sconosciuti ai più. Nel campo erano rinchiusi diversi studiosi, fra cui mio padre e le parole sono state spiegate. Poi abbiamo offerto loro una parte di quel tanto desiderato cibo che veniva dall’altra parte dell’oceano, regalatoci da soldati che avevano rischiato la vita – e in tanti erano morti— per ridarci la libertà.