Corriere della Sera, 14 agosto 2024
Il Rinascimento delle donne
«Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori…», così comincia il proemio dell’Orlando furioso, con cui Ludovico Ariosto annuncia la materia della sua opera, partendo dalle donne. Fu tra i primi a rendersi conto che il Cinquecento sarebbe stato un secolo femminile e quel suo giudizio sarebbe poi stato confermato, tra luci e ombre, anche da Tommaso Campanella che, nelle sue opere, torna più volte a sottolineare la maggiore presenza femminile e poi nella Città del sole, conclude che «si vede che in questo secolo regnaro le donne»: non solo Elisabetta Tudor in Inghilterra e Caterina de’ Medici in Francia, avvolte nel loro mito fascinoso e ambiguo, ma anche Bona Sforza in Polonia e Camilla Peretti, nipote del Papa, a Roma, senza dimenticare Isabella di Castiglia «inventrice del mondo novo», per il sostegno all’impresa di Colombo. Dunque, tante regine in una fase flagellata da guerre e stravolgimenti, che sembravano punizioni divine. Con una collana editoriale che Routledge dedica alle «venticinque donne che hanno plasmato un’epoca storica», e che comprenderà diversi libri su vari periodi, Meredith K. Ray, docente di Italiano alla University of Delaware, si propone di raccontare storie nascoste.
Il primo volume, Twenty-Five Women Who Shaped the Italian Renaissance, presenta appunto 25 donne che hanno forgiato il Rinascimento italiano (1450-1650), suddivise in cinque sezioni che coprono la politica, letteratura, religione, arte e scienze. Con Lucrezia Tornabuoni, matriarca dei Medici, la stravagante Caterina Sforza (1463-1509), l’abile Isabella d’Este, è scontata la presenza di Lucrezia Borgia, più nota per la sua rappresentazione di seduttrice che per l’azione politica, e doverosa quella di Artemisia Gentileschi, il cui valore artistico è quasi sempre oscurato dal violento crimine di cui fu vittima, incatenata doppiamente. Due casi, Lucrezia e Artemisia, che inducono a riflettere su come le vicende private e la reputazione di queste due protagoniste ne abbiano occultato il contributo consapevole alla cultura e alla politica del tempo.
La partecipazione femminile ai dibattiti e alle vicende dell’epoca non fu effimera e molte pagarono le conseguenze della loro audacia: avendo aderito alla Riforma, la ferrarese Olimpia Morata (1526-1555), raffinata umanista e studiosa di greco, abbandonò la sua terra per evitare l’Inquisizione continuando a condannare l’intolleranza religiosa. Non se la passò bene nemmeno Vittoria Colonna, che poté però evitare la fuga. Altre vissero più serenamente come la pittrice Lavinia Fontana, la prima a ricevere una committenza religiosa e la prima a raffigurare un nudo femminile, la Minerva, ora conservata alla Galleria Borghese. Si va diffondendo una nuova sensibilità, come notano i visitatori attenti di musei e gallerie dove si trovano i dipinti di Lavinia Fontana e di Sofonisba Anguissola: le recenti mostre al Prado e a Milano hanno evidenziato la presenza e l’attività di queste artiste nelle principali corti europee. Ray accende i riflettori anche su altre attrici ignorate, educando lo sguardo a frugare tra le testimonianze. Così del quadro di Sofonisba Anguissola sul gioco degli scacchi si nota la figura al margine, di cui non sapremo forse mai il nome, o ci chiediamo chi sia la dama con l’orologio ritratta da Annibale Carracci. Splendide voci risuonarono e incantarono: Francesca Caccini (1587-1641) fu contesa dalle corti europee, ma il padre, musicista, che negoziava gli ingaggi, preferì legarla alla Firenze dei Medici. Oltre a cantare, Caccini era una talentuosa musicista e fu la prima donna a comporre un’opera, La liberatione di Ruggiero. Qualche anno prima, aveva musicato l’opera di un nipote di Michelangelo Buonarroti, La stiava. Un talento riconosciuto e ammirato, ma sotto tutela: per mettere a tacere pettegolezzi, Caccini fu fatta sposare con un musicista mediocre. Soltanto con il secondo matrimonio, conquistò l’indipendenza economica e poté emanciparsi dal controllo altrui, agendo da imprenditrice di sé stessa e coltivando allievi. Diverse furono le cantanti, musiciste e compositrici, altre furono attirate dalla scienza e dall’indagine sulla natura. La padovana Camilla Erculiani, autrice delle Lettere di philosophia naturale, 1584, si avventurò a spiegare alcuni eventi biblici, ricorrendo a motivi scientifici, e per questo finì nel mirino dell’Inquisizione. La sua difesa si basò sulla distinzione tra scienza e fede.
Nel Cinquecento
Fu Tommaso Campanella a riconoscere che in quel secolo regnarono le donne
Il coraggio di scrivere e combattere non solo con l’inchiostro animò la poetessa Laudomia Forteguerri (1515-1555). Definita da Ray queer poet and civic hero, Forteguerri chiamò a raccolta altre donne per la libertà della sua città, Siena, costruendo il famoso fortino delle donne, nel punto considerato più vulnerabile delle mura di cinta. Il generale francese Blaise de Montluc, chiamato a sostenere i senesi contro l’esercito fiorentino, scrisse al suo re che il valore delle senesi superava di gran lunga quello dei pavidi romani. Siena, però, cadde sotto i Medici.
Le Muse soggiogano e ispirano persino l’altra metà del cielo. Cosciente di essere donna abietta e vile, si interrogava la poetessa Gaspara Stampa (1520-1554), come avrebbe potuto superare quel tormento dello scrivere? Un interrogativo raccolto oggi da Elena Ferrante, che sembra dipanarsi dal Rinascimento fino a Virginia Woolf, a Natalia Ginzburg e oltre. Più serena fu la parabola della napoletana Laura Terracina (1519-1577), autrice di gran successo editoriale. E poi ci furono patrone di salotti ambiti come Margherita Sarrocchi, corrispondente di Galilei e autrice del poema epico, la Scanderbeide, e la poetessa veneziana Sarra Copia Sullam, costretta a respingere le accuse di aver negato l’immortalità dell’anima, sostenendo che il suo accusatore non le perdonava l’essere ebrea e donna e chiedendo come si potesse dare credito a lui ignaro com’era di lingue e di filosofia.
Escono dall’ombra queste donne, se ne toglie il carattere di eccezionalità per raccontare quanto i loro destini non fossero straordinari, perché ce ne sono altri che ancora aspettano di essere riscoperti. Così è necessario liberare dall’aspetto privato (madri o non madri, amanti dei piaceri o disinteressate, e via dicendo, sempre che non siano loro stesse a invocarlo) per valutarne il valore e l’apporto. Ray rende le invisibili finalmente visibili, riportandole in carne e ossa, perché «l’oro che sta nelle minere ascoso/ Non lascia d’esser or benché sepolto», avrebbe ricordato Moderata Fonte.