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 2024  agosto 14 Mercoledì calendario

Felice Cordero di Pamparato il partigiano che morì urlando "Viva il re"

Era una sera d’estate come questa, una sera di rose che profumano e di lucciole nei prati. Era la sera del 17 agosto 1944. Ottant’anni fa. Un giovedì. Per le strade di Giaveno, 30 chilometri da Torino, verso le montagne, quattro giovani partigiani vengono trascinati a forza verso il centro del paese. Sono stati catturati nei rastrellamenti dei giorni precedenti ad opera dei fascisti. A un balcone al primo piano di una casa dove si trova una macelleria qualcuno ha legato alla bell’e meglio una corda con il cappio per l’impiccagione. I ragazzi sono intorno ai 20 anni. A uno di loro, il marchese Felice Cordero di Pamparato, viene chiesto per l’ultima volta di rivelare nomi e luoghi della lotta di liberazione, per avere così salva la vita. «Se parli, ti reintegriamo nell’esercito della Repubblica sociale».
Cordero ha 25 anni. Ha frequentato il Collegio Carlo Alberto di Moncalieri, allora retto dai padri barnabiti, e si è formato alla Regia Accademia d’Artiglieria di Torino e all’Accademia militare di Modena. È sposato da due anni con Luciana Rivoira; hanno un figlio di pochi mesi, Francesco, che lui ha appena conosciuto. Ha un accenno di stempiatura e due baffetti che oggi ci ricordano la figura del giudice Borsellino. All’ennesima richiesta dei fascisti, lui alza la testa verso la folla costretta dai repubblichini ad assistere in massa all’orrore che sta per compiersi. Uomini, donne, ma soprattutto bambini. Tra loro, anche una ragazza di 24 anni, Margherita Giai Piancera: la mamma dello storico Gianni Oliva.
Cordero lo conoscono in tanti, e non solo perché appartiene a una delle più antiche famiglie nobiliari piemontesi: lui è per tutti il Campana, soprannome che si è dato quando, dopo l’8 settembre del ’43, ha deciso di combattere in Val Sangone le truppe nazifasciste. L’appellativo Campana lo ha scelto per onorare un suo attendente, morto quando entrambi combattevano in Sicilia. I fascisti lo incalzano: «È l’ultima occasione: forza, parla». Ancora una volta, Felice Cordero di Pamparato, il partigiano Campana, rifiuta: «A nobile, si confanno cose nobili». Muore così, fedele ai suoi compagni e a sé stesso. Le ultime parole che gli sentono pronunciare sono: «Viva l’Italia, viva il re».
Ottant’anni dopo, Francesco Cordero di Pamparato, il figlio del comandante Campana, rievoca le terribili giornate del 1944, quel tempo immobile e dilatato, quando lui era in fasce e l’Italia e il mondo in guerra. Agosto ’44 è il mese dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema, delle stragi di San Quirico e di Fucecchio, dei partigiani impiccati a Settimo Torinese e di quelli giustiziati a piazzale Loreto. «Crimini imperscrittibili» li ha definiti il presidente Mattarella commemorando le vittime di Sant’Anna. Il 17 agosto, giorno in cui Francesco Cordero ha perso un padre che non ha mai conosciuto, è anche il giorno dei partigiani fucilati nella caserma di Padova e dell’eccidio di San Terenzo Monti.
«Di mio padre – racconta oggi Francesco Cordero dalla Tunisia, dove vive – si è persa per troppo tempo la memoria. Subito dopo la liberazione, gli fu intitolata l’ex sede del partito fascista repubblicano che successivamente ospiterà le facoltà umanistiche di Torino, in via Carlo Alberto. Palazzo Campana, appunto. Ma solo nel 2006 il Comune ha apposto una targa sull’edificio per ricordarlo, e devo riconoscere che gran parte del merito va proprio a Gianni Oliva, il figlio di quella giovane donna obbligata a vedere come si uccidono i partigiani».
In quelle aule, Francesco Cordero ha studiato: facoltà di Giurisprudenza. Era lì quando, nel novembre 1967, cominciò l’occupazione che diede vita al ’68 torinese. «Mi laureai pochi mesi dopo con il professor Conso, grande giurista, persona di un’intelligenza superiore». Pochi, tra i suoi compagni di facoltà, associavano il suo nome a quello del partigiano Campana e all’edificio che li ospitava. «Mio padre prima di morire gridò: viva l’Italia, viva il re. Ha capito? Il re! A molti questa cosa dava fastidio. La guerra partigiana apparteneva alla sinistra. Sulla targa del Comune c’è scritto che lui comandava una formazione di Giustizia e libertà. Ma non è vero. Divenne Giustizia e libertà solo dopo la sua morte. Fino ad allora, quella era una brigata indipendente. Lui aveva idee socialiste ma non si riconosceva in una sola parte. Pensava che contasse solo essere uniti per combattere il nemico comune e affermare la libertà».
É come se, continua Francesco Cordero, anche su suo padre si fosse posato il peso delle colpe dei Savoia, lui che aveva sì servito l’esercito del re ma che davanti al proclama di Badoglio aveva saputo fin da subito che cosa doveva fare, a fianco di chi doveva combattere. Una scelta non facile, soprattutto per un soldato, come ha raccontato Beppe Fenoglio nel suo Primavera di bellezza: “E poi nemmeno l’ordine hanno saputo darci. Di ordini ne è arrivato un fottio, ma uno diverso dall’altro, o contrario».
Felice Cordero di Pamparato, invece, le idee le ha chiare, chiarissime. «Le più chiare di tutti noi – racconterà il suo braccio destro, Michele Ficco, classe 1923 -. Per questo fu messo lui al comando: sapeva cosa andava fatto, e come».
Cordero molla dunque l’esercito, accompagna il suo comandante in Svizzera e torna dalla moglie sfollata a Coazze. Organizza svariate operazioni in Val Sangone ma non solo: un giorno si spinge fino al forte dello Chaberton per sottrarre armi e munizioni ai tedeschi.
Lo catturano il giorno di Ferragosto, a Provonda, una borgata di Giaveno. Cordero è per strada, sente qualcuno cantare Bandiera rossa. Miope com’è e in quel momento senza occhiali, gli va incontro senza pensarci: «Fate piano o finirete nella rete dei rastrellamenti». Ma è una trappola, e nella rete ci finisce lui. Quando la moglie viene a saperlo, fugge. Si rifugia con il figlio piccolo da alcuni parenti a Collegno. «Ed è stata una fortuna, altrimenti avrebbero costretto anche lei ad assistere all’impiccagione».
Francesco Cordero, come è riuscito a far pace con una storia così dolorosa? «Mio padre e i miei antenati sono stati un incubo che mi ha accompagnato per molti anni. Io sono cresciuto in una casa circondato dai quadri dei miei avi dal Cinquecento in poi. Tutti personaggi piuttosto importanti che hanno meritato un ritratto per essere ricordati. Mi sembravano dei giudici che mi osservavano e sentenziavano: Francesco, che cosa hai fatto per meritare di essere nostro discendente? Molti nobili hanno fatto pazzie e commesso stranezze proprio per questo: non si sentivano degni di essere inseriti nella galleria di famiglia». E lei, oggi che ha 81 anni? «Non so se ho fatto anch’io qualcosa di grande. Però ho pubblicato 18 libri, ho fatto il manager in Africa, ho insegnato per anni all’Università popolare della terza età di Torino. Va bene così». —