il Giornale, 14 agosto 2024
Il Baudelaire di Benjamin Fondane è un poeta che guarda nell’abisso
A Drancy, dove era stato internato, finì di correggere il libro. «Forse andrebbero tagliati alcuni capitoli, nel caso nuocessero all’ordine complessivo, lo appesantissero», scrive alla moglie, Geneviève. Si erano sposati nel 1931, in una fotografia stanno ridendo: lei è fatata, fatale; lui ha un volto omerico. Ma ora siamo nel marzo del 1944 e la polizia di Vichy ha braccato l’ebreo rumeno Benjamin Wechsler. Si era trasferito in Francia vent’anni prima, si firmava Benjamin Fondane, credeva che i libri dovessero essere marziali, precisi come un dardo, illuminati da una forza sprezzante. Per questo, nel campo, la sua preoccupazione andava all’ultimo lavoro, testamentario, dedicato a Baudelaire. Fu Emil Cioran, senza mezzi termini, a scrivere a Geneviève che il libro del marito era un capolavoro: «A mio avviso, è certo che nessuno abbia mai scritto qualcosa di più profondo su Baudelaire». Fu lui, tra gli altri, ad armarsi perché quel libro, Baudelaire e l’esperienza dell’abisso (ora edito da Le Lettere in una nuova edizione a cura di Luca Orlandini, pagg. 468, euro 29), ancora in stadio manoscritto, fosse pubblicato, per Seghers, nel 1947. Trasferito ad Auschwitz, Fondane era morto nei primi giorni di ottobre del ’44, in una camera a gas. Gli amici erano riusciti a ottenere la liberazione di quel formidabile pensatore: Fondane rifiutò di lasciare sola la sorella, Line, internata insieme a lui.
Poeta d’indole ferina – alcuni suoi testi sono raccolti nell’Antologia della poesia romena curata nel 1961 da Mario De Micheli per Parenti e introdotta da Salvatore Quasimodo, il suo Ulisse è tradotto nel 2014 da Aracne – Fondane ha scritto come nessun altro dei poeti, mettendone in luce, per così dire, il punto di non ritorno, la suprema effrazione. Nel 1933, per Denoël, aveva pubblicato Rimbaud la canaglia (in Italia: Castelvecchi, 2020): gli sembrava «esatto» che «un cattivo compagno, un cattivo amico, un insubordinato, un declassato», uno che aveva abiurato la poesia per il vagabondaggio, fosse il più importante poeta dei tempi moderni. La poesia – parola che deraglia dal senso, verbo-diverbio che fa lo scalpo al vocabolario – è tale soltanto se reca il rischio di ammutolire chi la legge, se obbliga a un continuo ammutinamento da sé.
Nel Baudelaire – un libro necessario per chiunque si appresti a scrivere versi: addestrare il falco non è come raccogliere le margherite di campo – Fondane compie una micidiale messa in questione dell’«intelligenza critica», vile stratagemma che ci mostra «l’umano... conciliante, pacificante, rassicurante», che mette «tra noi e la poesia una barriera, una diga, un ponte». Immusonita dalla museruola critica (che mortifica il vivido, il vivente), la poesia diventa posa, si erge a moda, il suo profilo sa di cattedrale gotica: svettante, certo, ma pur sempre misurabile. Belva che non tace, Baudelaire – di cui Fondane emenda i tic, la mise en abyme del maledetto da comò – è il poeta che sa «osare», cioè «accetta di uscire dal cerchio dell’uomo per diventare un sacrificato della vita, un paria intellettuale». I maneggi e i magheggi della critica – Fondane sfida Thomas S. Eliot, cardinale dell’intelletto, che di Baudelaire ha fatto una sublime, innocua statua di marmo – non possono «stabilire una barriera impermeabile intorno all’arte» né rabbonire il grido che proviene dall’opera di Baudelaire, «l’esperienza dell’abisso». Senza questo abisso – che è poi un abbassarsi negli innominabili, formulario che muta il cuore in iena e in condor, in salamandra e in mandria – l’arte resta aureo gingillo, gorgiera, gargarismo per gagà.
Discepolo di Lev estov – lo aveva incontrato a Parigi nel 1923, riconoscendo le stimmate del pensatore estremista: ne nacque un’amicizia decennale -, Fondane si colloca al lato opposto dei Sartre e dei Camus: non favoleggiò sulle inquietudini che agitano le anime pie, sui demoni meridiani dell’esistenzialismo; visse la furia dell’incompreso, l’indecenza, lo scandalo. Scardinò le riflessioni di Martin Heidegger (ora in: B. Fondane, Heidegger e Dostoevskij, Magog, 2022); Victoria Ocampo, la mecenate di Sur, ai cui piedi si era gettato Drieu La Rochelle, gli fece ponti d’oro. Quanto a lui, per un po’ si trasferì a Buenos Aires, a «girare un film assurdo, su qualcosa di assurdo, per soddisfare il mio assurdo gusto per la libertà»: la pellicola s’intitola Tararira ed è, naturalmente, scomparsa.
In uno dei suoi Esercizi di ammirazione (ora: Adelphi, 1988), Emil Cioran ci descrive il volto di Fondane come «Il volto più solcato, più scavato che ci si possa immaginare, un volto dalle rughe millenarie ma in nessun modo irrigidite perché animate dal tormento più contagioso ed esplosivo». Il poeta inglese David Gascoyne ne ricorda invece il corpo, «assai vigoroso», da «vogatore», e il supremo insegnamento: «non stancarsi mai di rimettere tutto in questione» (in: D. Gascoyne, Incontri con Benjamin Fondane, Aragno, 2021). Fondane lo riceveva di notte, quando la parola s’impaluda nel vampiro e non c’è tema di frainteso.
Di recente, il più riconosciuto tra i poeti italiani di oggi, Milo De Angelis, ha tradotto I fiori del male (secondo una piuttosto imbarazzante scelta grafica dello «Specchio» Mondadori risulta però che Milo De Angelis abbia scritto un improbabile libro intitolato I fiori del male di Baudelaire, pagg. 440, euro 22). L’esercizio, semmai, è capire quanto il Baudelaire di De Angelis se la intenda con quello di Fondane. Per tradurre Baudelaire, infatti, è necessario «l’uomo che deve aprire le porte all’incertezza, all’abisso», che «non sempre è padrone di sé» (così Fondane). La definizione, è storia – leggersi: Somiglianze, Millimetri, Biografia sommaria -, ben s’attaglia a De Angelis, pregiudizialmente il poeta più adatto a tradurre Baudelaire. Prendiamo i primi quattro versi di una delle più note poesie di Baudelaire, A una passante. Questo è De Angelis: «La strada assordante urlava intorno a me./ Alta, sottile, in lutto stretto, dolore maestoso,/ passò una donna, sollevando con un gesto sovrano/ la balza e l’orlo della sua gonna, facendola ondeggiare». Questa è la storica traduzione di Giovanni Raboni: «Ero per strada, in mezzo al suo clamore./ Esile e alta, in lutto, maestà di dolore,/ una donna è passata. Con un gesto sovrano/ l’orlo della sua veste sollevò con la mano». Questo è Antonio Prete: «La strada era assordante, urlava tutt’intorno./ Esile ed alta, in lutto, regina dolorosa/ una donna passò, con la mano fastosa/ sollevando il vestito, di trine e balze adorno». Dal frammento s’intuisce la strategia lirica, dal gheriglio risalite all’albero.
Il punto, in assoluto, è che non devi sederti sulle spalle di un poeta come fosse un divano, dimenticando che è baratro, è l’insonne che tormenta. Dalla lettura di una poesia non si può risorgere indenni né rinsavire d’un botto – la poesia ci perimetra nella contraddizione, ci leva la lingua, che batte, aliena, come la coda di un cagnolino da passeggio.