il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2024
Rileggere I promessi sposi
Se avessimo un po’ di buon senso – quello che “se ne stava nascosto per paura del senso comune” – non ci metteremmo qui a parlare dei Promessi sposi, classico dei classici, romanzo seminale, amato, odiato, da subito discusso e messo in discussione tanto che un secolo fa Gadda si sentì in obbligo di scrivere la famosa Apologia manzoniana: “Che cosa avete mai combinato, Don Alessandro, che qui, nella vostra terra, dove pur speravate nell’indulgenza di venticinque sottoscrittori, tutti vi hanno per un povero di spirito?”. Celebre la lettura critica di Moravia, a cui tanti colleghi si sono aggiunti perché è arduo per uno che voglia dirsi scrittore non confrontarsi con il canone. E siccome l’umanità tende al peggio, giù “per li rami” si arriva al disprezzo di Ken Follet (“un romanzo terribile”) o al nostrano Moccia che si candidava, qualche anno fa, come sostituto di Don Lisander a beneficio degli scolari. Ma non siamo qui per rievocare dispute tra letterati o scribacchini, siamo qui per dire, come ha fatto così bene Marcello Fois nel suo Renzo, Lucia e io, perché quello con I promessi sposi è un incontro che ci ha cambiato la vita. E di come, ricevendolo sui banchi, non abbiamo mai sbadigliato, nonostante la nostra professoressa non fosse un’entusiasmante guida al monumentale edificio romanzesco manzoniano.
Si dice che le avventure di Renzo e Lucia scontino appunto la “scolarità”, il fatto di esser letti per obbligo in lunghe e tediose mattine consumate in attesa della campanella. Eventualità che Manzoni aveva previsto, poiché prima di mettere la parola fine alla sua storia puntualizza: “Se v’ha dato qualche diletto, vogliatene bene all’anonimo e anche un po’ al suo racconciatore. Ma se in quella vece fossimo riusciti a noiarvi, siate certi che non abbiam fatto a posta”. Si dice ancora che per i giovinetti di oggi, abituati alla velocità e al tempo reale, un tomo siffatto non sia più nemmeno affrontabile. Invece, come amava dire Pietro Citati, tutto dipende da come lo si presenta. Non esser disposti a vedere la nota umoristica che fa così spesso capolino dalla penna risciacquata in Arno vuol dire non aver letto il libro, pieno di spirito, motteggi e ironia; tralasciare la storia, punteggiata di colpi di scena e personaggi meravigliosamente tratteggiati, prendendosela con la “propaganda ideologica” è un peccato, della cui buona fede ci tocca dubitare quando c’imbattiamo in accuse più o meno superficiali di pedante moralismo.
Tante volte lo abbiamo ripreso in mano che è difficile ricordare distintamente il primo momento dell’amore; tanto tempo è trascorso dagli anni ginnasiali che riacciuffare la memoria è un esercizio improbo. Ma è certo che in aula è stato piantato il seme di una passione che sarebbe sbocciata qualche anno più tardi, alla prima rilettura in un’estate universitaria. In casa e pure tra noi studenti se ne parlava, questo è sicuro. La monaca di Monza, capace con le sue trasgressioni di accendere l’immaginazione dei ragazzini – santa o puttana? – è stata oggetto di catilinarie e appassionate difese. L’Innominato, criminale e redento, geniale fin dal “non nome”, interrogava i nostri spiriti acerbi sulla possibilità del perdono e sull’autenticità dei ravvedimenti. Il cardinal Borromeo – ben prima di saperlo avo di quella che sarebbe diventata un’amica tra le più care – suscitava in alcuni ammirazione, in altri diffidenza. Perfino Tenco a un certo punto saltò fuori, per una citazione sospettata di plagio: “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare” non è forse ispirato ai pensieri di Don Abbondio dopo l’incontro con i Bravi? “Ragazzacci, che per non saper che fare s’innamorano, vogliono maritarsi, e non pensano ad altro, non si fanno carico dei travagli in che pongono un povero galantuomo”. C’era, nel libro, più che in ogni altro incontrato prima, un mondo intero da scoprire.
Lento, dicono molti, è il narrare di Manzoni. Nulla di più vero: per raccontare che il Griso, incaricato da Don Rodrigo di scovare Lucia, riesce a sapere che la poveretta si trova a Monza nel breve volgere di due ore, viene impiegata una pagina e mezza: ma sono parole necessarie e illuminanti. Insegnano come l’amicizia – una delle più grandi “consolazioni di questa vita” perché “una delle consolazioni dell’amicizia è quell’avere a cui confidare un segreto” – si possa tramutare, a furia di confessar segreti di bocca in bocca, in pericolosa indiscrezione. Manzoni trombone e pedagogico, quante volte l’abbiam sentita questa intemerata! Ma non c’è forse da imparare qualcosa di buono nell’ammaestramento finale di Renzo – “avventatello nel sentenziare, che si lasciava andar volentieri a criticare la donna d’altri, e ogni cosa” – quando capisce che “le parole fanno un effetto nelle bocche, e un altro nelle orecchie”? Quando Manzoni ci racconta l’incidente fatale di Ludovico, il futuro fra Cristoforo, spiega che “uno de’ vantaggi di questo mondo” è “quello di poter odiare ed esser odiati, senza conoscersi”. Massima che ci viene in mente ogni volta che qualcuno ci insulta – “gratis et amore” come direbbe Renzo – sui social.
“I promessi sposi” ha resistito alle temperie del tempo e dei detrattori non solo per la straordinaria ricchezza narrativa; non solo per le magnifiche invenzioni letterarie come l’Azzeccagarbugli (avvocato, a cui “bisogna dire le cose chiare” perché poi a lui “tocca d’imbrogliarle”); non solo per quanto ha fatto per l’unificazione della lingua e dunque del Paese, ma perché ha lasciato nella nostra lingua, e dunque nella nostra identità, indelebili tracce. Perpetua non era la donna di servizio del sacerdote (e nemmeno una chiacchierona in là con gli anni) prima di Manzoni. Carneade di Cirene non era un Carneade, prima. E vogliamo dire di Don Abbondio, diventato il simbolo assoluto della pavidità? “Il coraggio, se uno non ce l’ha mica se lo può dare” è una delle moltissime espressioni entrate nell’uso comune, come “il vaso di terracotta costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro” o come “i capponi di Renzo”, compagni di sventura che, invece di far fronte comune, attaccano briga tra loro. Non saremmo chi siamo senza Don Alessandro: ecco perché ha cambiato la nostra vita di lettori (e di italiani).