il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2024
L’Urlo di Munch al cesso
Non è tanto la pensione, da poco giunta, a farmi presente l’anagrafe quanto ricordare che sopra l’ingresso del luogo di decenza della stazione del mio paesello, ora elevato a borgo, un tempo compariva la dicitura “cesso”. È sostantivo, questo, che oggidì suona stonato sulla bocca di chiunque, a meno che non si voglia usarlo in senso spregiativo, tant’è che, se se ne chiede l’uso, si preferisce parlare di servizi, al più igienici, oppure di gabinetto, pur se con qualche esitazione in questo secondo caso.
Comunque la si voglia mettere però il risultato è che un cesso rimane sempre tale, luogo di sollievo per il corpo ma anche, non si direbbe, pungolo per la fantasia, fatto che ne rimarca la sua precisa, insostituibile utilità. Così è stato per quel tale proprietario di locale pubblico che, sul muro sopra di essa, sopra, cioè, la… la tazza? Sarà corretto definire così l’oggetto destinato alla ricezione? Che non sia pure questo termine che potrebbe offendere certe sensibilità ? Non richiama forse momenti meno intimi come quelli che si condividono al momento della colazione oppure del pranzo e della cena? Onde evitar polemiche, non resta che fare appello alla pattuglia dei sinonimi: e, rinominata la tazza di cui sopra, elevata infine a “sanitario”, ecco che la storiella può riprendere da dove s’era interrotta: segnalando quindi che il detto proprietario di esercizio pubblico, sul muro sopra il sanitario, ha appeso un manifesto riproducente il notissimo Urlo di Edvard Munch. Interrogato a proposito delle sue intenzioni, e giusto per averne conferma, l’imperturbabile barista ha ammesso di averlo fatto per amor di gioco, non nascondendosi che davanti alla stupefatta, per dire poco, espressione del volto ritratto, taluni potranno uscire dal luogo comodo, cesso in antico, rinfrancati quando non addirittura entusiasti, tal altri invece con una tristanzuola, quando non addirittura drammatica, presa d’atto della realtà.