il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2024
Ingmar Bergman si racconta: «Sono un nevrotico: creo sogni, follie e menzogne»
Anticipiamo uno stralcio di “Immagini”, il memoir di Ingmar Bergman (1990) fresco di stampa in Italia con Cue Press.
Ritornai al teatro nel 1964; la stagione offrì un paio di veri successi. Misi in scena l’Hedda Gabler di Ibsen e il Don Giovanni di Molière. Alla fine della stagione il Dramaten fece un vero viaggio dell’orrore per l’inaugurazione del nuovo teatro. Ci fu gente che morì o si ammalò gravemente. Io stesso avevo 39 gradi di febbre, ma mi misi in viaggio ugualmente. Finì con una doppia infiammazione polmonare e un’intossicazione acuta da penicillina. Alla fine fui sistemato all’ospedale. Cominciai a scrivere Persona, più che altro per allenare la mano… Cominciai a pensare: perché lo sto facendo? Perché me ne preoccupo? Il ruolo del teatro si è ormai esaurito? I compiti dell’arte sono stati sostituiti da altre forze? C’erano buoni motivi per avere simili pensieri. Non si trattava di un’avversione nei riguardi della mia attività professionale. Sono indubbiamente un nevrotico, ma il rapporto che ho con la mia professione è sempre stato sorprendentemente non nevrotico. Ho avuto sempre la capacità di attaccare i demoni davanti al carro da combattimento. E loro sono stati costretti a rendersi utili. Ma al tempo stesso, a quattrocchi, si sono dati da fare per tormentarmi e mettermi in imbarazzo. Il direttore del circo delle pulci, com’è noto, permette ai suoi artisti di succhiargli il sangue.
Dunque mi trovavo all’ospedale. A poco a poco mi rendevo conto che l’attività di direttore di teatro era di ostacolo alla mia creatività. Avevo fatto andare i motori su di giri e i motori avevano sconquassato la carrozzeria. Era perciò necessario scrivere qualcosa che sollevasse il senso di vuoto. Questo stato emotivo venne espresso con una certa precisione in una considerazione che scrissi quando ottenni il premio olandese Erasmus. La chiamai La pelle di serpente, e la pubblicai come introduzione a Persona. La creazione artistica in me si è sempre manifestata come fame, ma non mi sono mai domandato perché questa fame sia sorta e abbia preteso appagamento. Negli ultimi anni, quando essa ha cominciato a decrescere, sento l’urgenza di chiarire. Uno dei primissimi ricordi d’infanzia riguarda il mio bisogno di dimostrare quel che avevo realizzato: capacità nel disegno, l’arte di lanciare una palla contro una parete, le prime bracciate a nuoto. Ricordo di aver avuto un forte bisogno di attirare l’attenzione degli adulti. Quando la realtà non bastava più, allora cominciavo a fantasticare, intrattenendo i miei coetanei con inaudite storie basate sulle mie prodezze segrete. Erano menzogne imbarazzanti, che si frantumavano irreparabilmente contro il sobrio scetticismo dei miei ascoltatori. Alla fine mi tiravo fuori dalla comunità e mi conservavo il mio modo di sognare tutto per me. Un ragazzino in cerca di contatti umani, dominato dalla fantasia, si era trasformato in un sognatore a occhi aperti, ferito e a un tempo pieno di risorse. Ma un sognatore a occhi aperti, non un artista, se non nei suoi sogni.
Era chiaro che la cinematografia sarebbe diventata il mio mezzo espressivo. Mi resi conto che era un linguaggio che andava al di là della parola che mi mancava, della musica che non dominavo, della pittura che mi lasciava indifferente. All’improvviso avevo la possibilità di comunicare con il mondo circostante con una lingua che poteva essere parlata letteralmente da anima ad anima e che in tutte le sue pieghe si sottraeva, quasi in modo voluttuoso, al controllo dell’intelletto. Con la fame arginata del bambino mi buttai sul mio medium e in vent’anni, instancabilmente e a ritmi quasi forsennati, ho mediato sogni, esperienze emotive, fantasie, esplosioni di follia, nevrosi, spasimi di fede e pure menzogne. Così, la mia fame ha continuato a rigenerarsi. Denaro, fama e successo sono stati degli stimoli sorprendenti ma, in fondo, delle insignificanti conseguenze del mio impulso violento. Con tutto ciò non intendo sottovalutare quello che, fortunatamente, ho fatto. L’arte come autosoddisfazione può naturalmente avere la sua importanza: soprattutto per l’artista. Così, a voler essere del tutto sincero, io vivo l’arte (non soltanto cinematografica) come qualcosa del tutto privo di significato… In linea di massima, l’arte è libera, impudica, irresponsabile e, come si detto, il movimento che la circonda è intenso, quasi febbrile; esso somiglia, mi sembra, a una pelle di serpente piena di formiche. Il serpente stesso è già da lungo tempo morto, mangiato, privato del suo veleno, ma l’involucro si muove ancora, brulicante di esseri viventi e affaccendati. Se ora prendo in considerazione tutta questa noia e, nonostante tutto, affermo che voglio continuare a fare arte, il motivo è molto semplice (prescindendo dalle esigenze puramente materiali). Il motivo è la curiosità. Una illimitata, mai appagata, insopportabile curiosità, sempre rinnovata, che mi spinge avanti, che non mi dà mai pace, che sostituisce pienamente la fame di contatto del passato… L’artista divide le sue condizioni con ogni creatura vivente. Nell’insieme, tutto questo viene a formare una sorta di fratellanza abbastanza ampia che conduce così la sua esistenza in egoistica comunione, gli uni con gli altri, su questa calda e sporca terra, sotto un cielo freddo e vuoto.