la Repubblica, 14 agosto 2024
È il miracolo a fare il santo
Non sono i santi a fare i miracoli. Sono i miracoli a fare i santi. È uno dei paradossi del sacro. Senza manifestazioni visibili, senza prove di forza, la religione non tocca i cuori dei fedeli. Il grande filosofo cristiano Blaise Pascal diceva che se Cristo non avesse fatto miracoli, «non ci sarebbe stato peccato a non credere in lui». Senza la resurrezione di Lazzaro, la moltiplicazione dei pani e dei pesci, la trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana, la guarigione del lebbroso, sarebbe stato difficile pensare che il Nazareno fosse davvero il figlio di Dio.
Perché i miracoli sono il segno dell’onnipotenza divina. Concessa per una sorta di delega ai suoi apostoli terreni. I santi in fondo sono proprio i campioni della fede, i protettori e avvocati soprannaturali. Ma spesso gli avvocati diventano così potenti da oltrepassare i limiti del mandato ed esercitare autonomamente un potere di grazia e di giustizia. Così è almeno nella religione popolare che fa del culto dei santi una sorta di politeismo cristiano.
Qualcuno fa discendere l’idea del miracolo da quella del potere assoluto. Nel senso che le figure dei re terreni avrebbero influenzato quella del Re dei cieli. Dai potenti all’Onnipotente. Gliarcana dei,in latino i misteri di Dio, sarebbero così la proiezione celeste degli arcana imperii, i segreti del potere. Non a caso la più efficace definizione dei miracoli la dà il filosofo inglese Thomas Hobbes, teorico dell’assolutismo monarchico e padre della teoria politica moderna, che nel suo Leviatano li definisce segni portentosi di un volere imperscrutabile e di un potere assoluto. Il grande pensatore va al cuore della questione mostrando che il miracolo, come dice la parola stessa – derivante dal latinomirum ovvero prodigio – ha sempre a che fare con lo stupore, con la stranezza, con la meraviglia. E soprattutto con la sovranità, che vive in uno stato di eccezione al di sopra di ogni regola. Una sorta di effetto speciale che sovverte le leggi di natura, o le sospende fino a nuovo ordine. Ecco perché diventa possibile che un morto torni in vita, che l’acqua diventi vino. O che una malattia incurabile sparisca immergendosi nella vasca di Lourdes.
Alla fine dell’Ottocento il grande neurologo francese Jean-Martin Charcot, maestro di Sigmund Freud e celebre per gli studi sull’isteria condotti nell’ospedale parigino della Salpêtrière, nonché scopritore della Sla, intervistato sulla verità delle guarigioni di Lourdes rispondeva che in molti casi la guarigione avveniva davvero. Non andava però attribuita alla Madonna, ma all’onda dell’emozione collettiva che si trasformava in una piena di energia vitale. In grado di modificare l’equilibrio psicofisicodel devoto. Attivando quelli che oggi si chiamerebbero processi di autoguarigione. Insomma, la cosiddetta remissione del male sarebbe come l’onda della grazia che si frange in due derive, salvezza e salute, anima e corpo ricomponendo miracolosamente l’unità dell’essere.
«Se chiedi i miracoli eccoli qua! La morte, le disgrazie, il demonio e la lebbra vengono scongiurati. Gli ammalati si alzano sanati, il mare si calma, le catene si spezzano. Giovani e vecchi pregano e ritrovano nuovamente gli arti che hanno perduto. I pericoli periscono, la miseria finisce. Parlino tutti coloro che hanno visto con i loro occhi. Lo dicano i Padovani». È il testo medievale di un sequero – corruzione popolare del latino Si quaeris miracula, letteralmente “Se cerchi i miracoli” – custodito a Padova nella basilica di Sant’Antonio, uno dei grandi centri taumaturgici della cristianità.
I termini stessi di questa invocazione popolare dicono molto chiaramente che la domanda miracolistica ha sempre a che fare con dei bisogni profondamente umani. Come la sopravvivenza, la salute, riuscire ad avere dei figli, scampare alle catastrofi naturali, agli incidenti sul lavoro. Salvarsi per miracolo, non a caso, è un’espressione che va molto oltre la religione e diventa modo di dire comune. Chiave di lettura dell’inspiegabile.
Del resto, basta visitare i santuari più celebri, da quello di Medjugorije a Loreto, da Guadalupe a Pompei, da Santiago de Compostela a San Nicola di Bari, per leggere riflessa negli ex voto popolari la storia dolorosa di un’umanità in stato di emergenza.
I miracoli sono dunque sempre gli stessi e sempre diversi. Seguono delle vere e proprie mode dettate dalle forme assunte dalla domanda e dall’offerta religiosa in tempi diversi. Il medioevo, tempo di Crociate, si addice a San Giorgio, esaltato come il guerriero che uccide il dragone infernale e a San Michele, invocato come signore delle armate celesti, al punto che nella chiesa orientale ha il titolo di Tassiarca, un capo di stato maggiore dell’esercitoateniese. Mentre San Francesco è in anticipo sui tempi con le sue prediche agli uccelli e le lodi di “nostra matre terra”. Lo stile della sua santità sembra fatto apposta per il sentiment sostenibile degli ambientalisti di oggi. Ecco perché Giovanni Paolo II nel 1979 lo proclama patrono degli ecologisti.
Invece, in età barocca quando tutto è teatro, i miracoli hanno a che fare soprattutto con dei colpi di scena, come quelli del sangue di San Gennaro che si squaglia, si aggruma, si addensa, si riscioglie. E delle trecento liquefazioni prodigiose di altri santi che abitano la Napoli del Seicento. Mentre oggi prevalgono da una parte le Madonne che piangono e sanguinano, icone dolenti di un femminile sofferente e dall’altra i campioni della solidarietà e della pietà. Come Padre Pio e madre Teresa di Calcutta.
Ai nostri giorni, la domanda religiosa sembra orientarsi verso la ricerca di una sempre maggiore visibilità del sacro e delle sue manifestazioni.
Il che per un verso assoggetta la religione alle regole che governano la civiltà dell’immagine e per l’altro ne fa la depositaria suprema di una domanda di certezze. Perché nessun segno è forte, indiscutibile e ad alta definizione come un miracolo. Che per chi crede è vero quanto è vero Iddio.