il Giornale, 13 agosto 2024
Deraismes, la prima femminista liberale
Si sa, il liberalismo cambia di segno non appena si attraversano i confini delle nazioni. Nel tempo alcune sue linee evolutive si sono avvicinate, sovrapposte, di nuovo si sono allontanate e seppure esprimano oggi orientamenti talvolta molto distanti, dal conservatorismo al radicalismo, riverberano pur sempre la loro radice comune di libertà dell’individuo. Di conseguenza il liberalismo ha da una parte questa postura atemporale, sopra le parti, dovuta al suo idealismo, dall’altra conserva un carattere naturale – che taluni scambiano per sfrontatezza – nel concepire la politica per quella che è, un’attività umana, di ragionamento pratico, di azione possibile, per vivere calati nella realtà e migliorarla secondo criteri di senso senza temere di agire e all’occorrenza rivedere ciò che si è fatto, in un continuo dinamismo.
L’individuo con le sue libertà è emerso con la Rivoluzione francese. Valori e principi come la proprietà privata, la libera impresa, il libero mercato, ma anche il libero pensiero, la laicità, i diritti civili, la libertà di opinione e di espressione, che oggi associamo a identità definite, tradizioni e approcci consolidati, scaturirono a quel tempo da un unico sentimento, nuovo; una spinta storica che è il frutto vero di quella rivoluzione, poiché dalla lotta all’assolutismo della monarchia capetingia sviluppò l’antidoto contro ogni forma di ingerenza da parte dello Stato nei meccanismi culturali, economici e produttivi, oltre a ridisegnare il rapporto tra individuo e società.
Ebbene, i principi della Rivoluzione francese impiegarono quasi un secolo per traghettarsi dalla teoria alla vita collettiva reale, non senza turbolenze. Non per nulla la storiografia parla di tre rivoluzioni francesi che comprendono finanche i moti del 1848. A partire da questi anni, un personaggio fuori dal comune, liberale al modo che abbiamo descritto, si fece notare a Parigi con una serie di conferenze pubbliche che muovevano folle di persone, producevano dibattiti sui giornali che duravano settimane, persino arresti e scontri di piazza. Era Marie Deraismes, una intellettuale che rivendicava la necessità di migliorare le condizioni di vita delle donne, che rappresentava il meglio della borghesia quale classe emergente e ospitava nel suo salotto personaggi come Victor Hugo.
Se per imbatterci nel termine «femminista» si deve attendere che a coniarlo sia Marie-Eugénie Pierre nel 1892, ma anche che il suo impiego diventi più frequente nel corso del Novecento assumendo via via le varie accezioni che ha oggi, Deraismes si dedicò ai diritti delle donne al punto da portare gli studi di genere a dover parlare, retrospettivamente, di «Prima ondata femminista». Se il femminismo italiano fonda la sua pratica sul separatismo (dall’uomo), Deraismes al contrario precisa che non può esserci miglioramento sociale se non nella complementarità dei generi. La parità di genere, espressione attuale che nell’applicazione istituzionale si riduce alle pari opportunità (sempre meglio delle oscene «quote rosa»), nell’orizzonte di Deraismes non avrebbe avuto senso. Per essere complementari, va da sé che all’uomo e alla donna devono essere riconosciute differenze profonde, non solo fisiologiche, conoscendo le quali si può pensare di porre fine alla condizione subalterna delle donne; bisogna poi che le virtù e le capacità vengano a integrarsi in una collaborazione duratura nel tempo, superando di gran lunga il mero equo posizionamento di fronte ai mezzi e alle possibilità.
Nella sua opera Eva nel mondo (Edizioni dello Straniero, pagg. 183, euro 20), Deraismes indica una per una le molteplici contraddizioni sia dell’uomo sia della donna. A proposito dell’uomo, dimostra come abbia da sempre una doppia morale fra ciò che afferma di desiderare e ciò che sceglie di abbracciare nei fatti. Della donna dimostra come abbia apprezzato quella strana forma di violenza rovesciata che è il protettorato offerto dall’uomo, ma più grave è che abbia troppo spesso preso a modello del proprio femminile la cortigiana, non esattamente una donna che per sua scelta e iniziativa liberava i propri costumi sessuali nella direzione da lei desiderata, ma un ruolo subìto di cui pure era responsabile per non sapervi mettere un freno. Deraismes era un’attenta studiosa delle tradizioni e da credente ne aveva troppo rispetto per pensare di licenziare sbrigativamente il patriarcato. Diversamente dall’attaccarlo per partito preso, era più incline a studiarlo e con una precisione quanto mai rara muove critiche non perdendo di vista gli snodi della nostra civiltà. La sua, infatti, è una filosofia della natura, vale a dire dell’osservazione. Solo basandosi su una attenta visione della storia sperava di aprire alla filosofia morale, sulla scorta di Kant o Fichte.
Similmente ragiona intorno alla famiglia quale pilastro della società. Tutto comincia da lì, dall’educazione che si riesce a dare e ricevere tra le mura domestiche nell’equilibrio fra libertà e dovere, fra «legge e sovversione – le quali, spiega Carlotta Cossutta nell’introduzione – delineano immediatamente l’immagine di una tensione tra una produzione umana – il diritto – che proprio perché artificiale permette di essere messa in discussione e la pretesa, al contrario, che questa legge sia naturale. E vedremo che Deraismes pensa questa sovversione a partire da un uso strategico della natura, proprio contro un ordine sociale che continua a dimostrare tutta la sua iniquità». Le notazioni di giusnaturalismo che si possono ricavare da diverse pagine fanno parte della bellezza di quest’opera.
Sebbene i brani che la compongono (in due volumi, il primo è uscito nel 2023, il secondo è annunciato per il 2025) siano nati per essere ascoltati nelle conferenze che le chiedevano di tenere in tutte le città della Francia, sono belli da leggere, anche per la pregevole traduzione di Alessandro d’Agostini che attualizza senza alterare. A caratterizzarli è un senso della logica continuo, incalzante nelle argomentazioni e nei riferimenti. I capitoli prendono il titolo dal rapporto della donna col Diritto, col Costume, con la famiglia, con la società e col Teatro. Se il primo è dedicato all’analisi del femminino nelle tradizioni spirituali e mitologiche, e all’uso strumentale che se ne è fatto, i successivi svelano i meccanismi di assoggettamento del femminino per mezzo dei vizi della società dell’epoca, così simile alla nostra sotto molti aspetti. Certo, noi non corriamo il rischio di tornare all’Ancien Régime, come toccò alla Francia in quegli anni, ma nei risvolti delle dinamiche sociali fondamentali, trovare le differenze diventa difficile.
Sotto il governo di Napoleone III le riunioni pubbliche non erano permesse, così Deraismes, liberale anche in questo, sfruttò le sue capacità di organizzarne in forma privata, dando vita ad associazioni fino ad allora impensabili. Fra queste ben due in difesa dei diritti delle donne, e insieme a Georges Martin fondò Le Droit Humain, primo Ordine massonico misto della storia, estendendo persino in quell’ambito così particolare la complementarità tra uomo e donna e permettendo al genere femminile di accedere alla massoneria tradizionale.
L’ultimo capitolo è dedicato al fare a pezzi Alexandre Dumas figlio, cosa che le riesce benissimo, a seguito della pubblicazione dell’Homme-Femme, un pamphlet scritto in occasione dell’affaire Dubourg, un processo per uxoricidio – un femminicidio, si dice oggi. In quest’opera Dumas invita a uccidere la donna che viene meno al patto coniugale, incitazione che riprenderà in un’opera successiva, La femme de Claude, argomentando così in risposta al critico Auguste Cuvillier-Fleury che lo aveva attaccato: se all’invito di scagliare una pietra contro l’adultera, uno fosse uscito dalla folla dicendo di essere senza peccato, Cristo gli avrebbe ordinato di colpire. Come se Cristo non sapesse chi siamo.