La Stampa, 13 agosto 2024
Intervista a Marco Tullio Giordana
Marco Tullio Giordana torna sul grande schermo. Al Festival di Locarno è stato insignito di un Pardo alla carriera e ha presentato il suo ultimo film La vita accanto, tratto dal romanzo di Mariapia Veladiano, nelle sale dal 22 agosto. Una storia ambientata tra gli anni Ottanta e il Duemila, che segue le vicende di una facoltosa famiglia vicentina, la cui vita viene sconvolta dalla piccola Rebecca, nata con una macchia rossa che le deturpa il viso.
Nel romanzo Rebecca è una ragazza brutta, nel film molto bella ma guastata da una grande macchia rossa. È difficile raccontare la bruttezza al cinema?
«Alcuni film hanno affrontato direttamente il tema, come Dietro la maschera di Bogdanovich o The Elephant Man di Lynch. Marco Bellocchio e Gloria Malatesta, nella prima stesura della sceneggiatura, ebbero l’idea di spostare l’accento dalla deformità alla difformità. Qualcosa più vicino all’insoddisfazione che ciascuno nutre, dato che nessuno è contento di com’è».
Come ha lavorato su quella sceneggiatura?
«Ho cercato di farla mia. Più che dal groviglio dei rapporti familiari, o dall’influenza perversa dell’educazione cattolica, mi sono sentito coinvolto dai sentimenti forti che pure non riescono ad esprimersi. O si esplicitano in modi così indiretti da sembrare aggressivi».
Che effetto le ha fatto lavorare su una storia scritta da uno dei suoi due idoli cinematografici (l’altro è Bertolucci)?
«Quando avevo vent’anni fantasticavo di fare cinema e questi due ragazzi, più grandi solo di solo una decina d’anni, li vedevo come fratelli maggiori. Allungando il braccio avrei potuto toccarli, senza la soggezione che mi incutevano maestri come Rossellini, Antonioni, Fellini, Visconti, Pasolini o De Sica, all’epoca ancora in piena attività. I film di Bertolucci e Bellocchio li sentivo vicini, mi sembrava che li avessero fatti per me».
E quando li ha conosciuti?
«È stato un regalo, così come lo è stato aver goduto della loro amicizia. Sono artisti che non mi hanno mai deluso, anzi nella vita sono ancora più grandi e illustri di come li avevo immaginati».
Nel film il diario di Maria è pieno di disegni realizzati proprio da Bellocchio.
«Quando scrive, lui ha anche l’abitudine di disegnare, con uno stile molto suggestivo che ricorda un po’ l’espressionismo tedesco. Poi però accartoccia tutto e butta via. Questa volta gli ho chiesto di salvare le sue creazioni, per poterle usare nel film. Trovo che quei disegni così complessi e drammatici siano perfetti per materializzare le ossessioni di Maria, il suo talento che non ha trovato modo di esprimersi se non in segreto».
La protagonista, Rebecca, è interpretata dalla giovane pianista Beatrice Barison, al suo esordio nel cinema. Come l’ha scoperta?
«Girando tutti i conservatori veneti. Cercavo qualcuno che suonasse dal vivo come Sonia Bergamasco, che è diplomata in pianoforte col massimo dei voti. Beatrice si è rivelata un’eccellente compagna di lavoro, umile, disciplinata, allegra. Tutta la troupe era innamorata di lei. Non ha avuto alcuna timidezza verso la macchina da presa, forse perché da strumentista era già abituata a essere al centro dell’attenzione».
Bergamasco è fra le sue interpreti preferite. Che cosa le piace di più di lei?
«Lo stesso che amo in Michela Cescon e Angela Fontana, che mi hanno regalato un prezioso cameo nel film. Sonia fa parte di quel gruppo di attrici e attori sui quali so sempre di poter contare, amici veri prima ancora che valenti professionisti. L’amicizia con Sonia nacque ai tempi de La meglio gioventù, dove addirittura modificai il personaggio per farle suonare Mozart nel cortile del Conservatorio di Firenze, devastato dall’alluvione del 1966».
Per la madre di Rebecca ha scelto Valentina Bellè.
«Il provino più fulmineo della mia vita, forse anche della sua. Dopo due battute l’ho interrotta, avevo capito che era quella giusta ed era inutile star lì a cincischiare. Mi aveva colpito la sua capacità di rendere con realismo il disagio mentale, quell’insieme di disperazione e speranza di uscirne. È un attrice magnifica, un’altra con cui ormai non ho più nemmeno bisogno di parlare».
Che cosa rappresenta questo film nella sua carriera?
«Non lo considero diverso dagli altri. Mi sembra quasi una sorta di spin-off de La meglio gioventù. Anche qui c’è una storia familiare, i destini paralleli, i conflitti, le gioie travolgenti e il dolore. Come là la funzione della musica è fondamentale, qui è addirittura il nerbo del film. Non solo i grandi classici come Beethoven, Rachmaninov, Bach, Bartók e gli altri eseguiti da Sonia Bergamasco e Beatrice Barison, ma anche lo splendido commento composto dal premio Oscar Dario Marianelli».
Nel film è centrale il tema del nascondersi, del ritrarsi. In tutti, non solo in Rebecca. Cosa ci spinge a schermarci?
«Il bisogno di uniformarsi, di essere “come gli altri” nella nostra società è molto forte, direi prevaricante. O si indossa l’uniforme, oppure ci si nasconde. La paura di non sentirsi accettati è un’emergenza del presente. Bisogna iniziare a farlo con noi stessi, cosa facile a dirsi ma sempre più difficile a farsi».
La vita accanto ha visto il coinvolgimento di giovani talenti anche nella produzione, come il quarantenne Simone Gattoni. Le sembra che stia nascendo una “meglio gioventù” del cinema italiano?
«Senz’altro. Tra innumerevoli difficoltà si sta affacciando una generazione di autori, registi, anche produttori che fa ben sperare. D’altronde non può esistere regista senza produttore e viceversa, è necessaria un’armonia tra le due figure, una comunione di amorosi intenti. Simone è un produttore che ama il grande cinema, soprattutto è un entusiasta. Essere entusiasti è molto importante, una qualità vicina all’incoscienza e alla temerarietà».
Perché ha voluto dedicare il film alla regista belga Chantal Akerman?
«Chantal oggi avrebbe la mia stessa età. Debuttò nel 1975, quando di anni ne aveva solo 25. Con Jeanne Dielman affrontò per prima temi che oggi sono diventati di moda, persino stucchevoli, perché trattati in maniera regolamentata e burocratica. Quando portò sullo schermo la sua femminilità e la sua omosessualità, senza filtri e imbarazzi ma anche senza esibizionismi, fu chiara a tutti la sua grandezza di cineasta. La conobbi a un festival, parlammo con fervore di vecchi amici comuni. Aveva amato il mio primo film, conservava una sorta di ironico stupore sulla deferenza che suscitava. Una decina d’anni fa si tolse la vita, dopo la morte della madre. Ho pensato che se c’era qualcuno a cui dedicare questo film questo qualcuno fosse proprio lei».