il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2024
Biografia di Franco Evangelisti, il «A Fra’, che te serve?»
Se, come scriveva Eugenio Scalfari, Giulio Andreotti stava alla politica “come la cozza sta alla bocca della fogna: riceve acqua putrida e la restituisce pulita”, chi era allora Franco Evangelisti? Interveniva prima o dopo la fogna? O era addirittura capace di recitare, per il suo capo, due parti in commedia: ora fogna, ora acqua pulita?
L’ultima ipotesi, anche se in assenza di prove o di testimoni (l’ultimo sopravvissuto degli andreottiani è Cirino Pomicino) appare però la più probabile. Aggrappata a quella frase immortale, “A Fra’, che te serve?”, riferita proprio da Evangelisti a Paolo Guzzanti in un’intervista per Repubblica del 28 aprile 1980. Cinque parole che diventeranno il simbolo del sistema della corruzione e del finanziamento illegale dei partiti e che poi troverà la sua epifania nell’inchiesta di Mani Pulite. Con Guzzanti, lo scudiero del “divo Giulio” si lascia andare: ammette di aver ricevuto finanziamenti illeciti da Gaetano Caltagirone e racconta che, ogni volta che telefonava all’imprenditore, il primo saluto era sempre lo stesso: “A Fra’, che te serve?”. Una frase che Caltagirone non smentì mai.
Di certo, nella “gens Giulia”, la falange del Dc più spregiudicato e più potente, Evangelisti ricopriva il ruolo di “uomo-ombra”. Portavoce, fedelissimo, quasi un braccio destro, incaricato “dei lavori sporchi” (“la bocca della fogna e l’acqua pulita”, appunto), pontiere nelle trattative più delicate e più difficili: fossero quelle con i neofascisti di Giorgio Almirante o con i comunisti di Enrico Berlinguer. A lui toccava garantire e tessere trame in quella Roma che conosceva come le sue tasche, come il suo dialetto, come la sua anima: voti in Ciociaria, agganci in Vaticano, soldi dei palazzinari. “Andreotti è il regista, il numero dieci, il capitano. Io il centravanti di sfondamento. Evangelisti il libero. Pomicino un tornante che si ingarbuglia da solo. Claudio Vitalone, un panchinaro”. Così Vittorio Sbardella, detto “lo Squalo”, ras della Dc romana, descriveva la “rosa” della squadra andreottiana.
Una metafora calcistica che celava uno dei cardini del potere del “divo Giulio” nella Capitale: la passione giallorossa e il controllo della Roma calcio. Giulio ordina e Franco ubbidisce: diventa presidente nel 1965 e lo resterà sino al 1968. La Roma di quegli anni versa in condizioni economiche non particolarmente floride: l’unica stella è lo spagnolo Peirò, poi qualche “bandiera” vicina al congedo. Come Pizzaballa, Losi, Barison. Regna tre anni soltanto (ma salva la squadra dal fallimento e la trasforma in una società per azioni), infine il ritorno a tempo pieno a fianco di Andreotti. Che, a sua volta, il “numero due” aveva imparato a farlo vicino ad Alcide De Gasperi: ed Evangelisti sarà il più efficiente e il più mellifluo “braccio destro” della Prima Repubblica. Irraggiungibile: il Clemente Mastella di Ciriaco De Mita, per esempio, resterà solo un tentativo d’imitazione e nulla più. Dopo, forse solo Gianni Letta con Berlusconi raggiungerà le stesse vette. Letta: non a caso un altro che Andreotti lo aveva visto da vicino.
Un romanaccio vero Evangelisti, dall’eloquio spesso volgare, poco portato ai modi della diplomazia. Capelli con la brillantina e baffetti un po’ alla Clark Gable. È l’esatto opposto del suo leader e dirà di sé: “Io sono il San Paolo della fede andreottiana”. Nato ad Alatri (Frosinone) il 10 febbraio 1923, al liceo era in classe con Tonino Tatò, giovane esponente dei “cattolici comunisti” assieme a Franco Rodano, che poi diventerà il segretario di Berlinguer. “Sono andato a scuola di compromesso storico” ricorderà anni dopo Evangelisti, quando nasceranno i governi di solidarietà nazionale e quell’antica conoscenza con Tatò sarà importante nei rapporti col segretario del Pci.
La carriera politica del futuro uomo-ombra comincia proprio ad Alatri: sindaco, nel 1964, per la Dc: dopo gli esordi nel Partito repubblicano di Ugo La Malfa. Infine l’approdo a Roma: non si laurea, ma diventa giornalista e poi sarà parlamentare per sette legislature. Più modesta, invece, la carriera governativa: accade quasi sempre così agli spiccia-faccende del capo. La prima volta solo sottosegretario al Turismo, poi sempre sottosegretario alla presidenza del Consiglio in tutti i governi Andreotti. In un’unica occasione ministro: alla Marina Mercantile, nel primo esecutivo di Francesco Cossiga.
Si dimetterà da quell’incarico il 4 maggio 1980, proprio dopo il colloquio con Guzzanti. Anni dopo, al giornalista che gli chiedeva una nuova intervista per rievocare quella clamorosa del 1980, risponderà così: “Fammi pensare. Senti, Guzzà, c’ho pensato: ma vedi un po’ d’annà affanculo”.
Franco Evangelisti morirà nel 1993 a 71 anni, per un ictus, nella clinica romana Quisisana, la stessa dove nel 1937 si era spento Antonio Gramsci. I rapporti con Andreotti si erano rotti da tempo: il capo non aveva gradito le dichiarazioni ai pm del suo braccio destro sulle vicende dell’omicidio di Mino Pecorelli e dei rapporti della corrente andreottiana con Cosa Nostra. Le cronache raccontano però che, di nascosto, l’ex leader Dc si recò alla Quisisana per un’ultima visita. Andreotti morirà 10 anni dopo, nel 2013.
Evangelisti non fece in tempo a vedere il film Il Divo di Paolo Sorrentino e dunque se stesso, interpretato da Flavio Bucci, entrare negli uffici romani di Andreotti, annunciato assieme agli altri della “gens Giulia” dalla segretaria del presidente che, affacciata alla finestra, gli mormora: “Sta arrivando una brutta corrente…”.