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 2024  agosto 13 Martedì calendario

Ventiquattro anni fa il Kursk l’incidente con cui lo zar imparò a sopravvivere


Ona utonula. «È affondato». È quello che si limitò a dire il presidente russo Putin nel settembre 2000, quando Larry King della Cnn gli chiese che cosa fosse successo al Kursk, il sottomarino nucleare così chiamato in onore della più grande battaglia di mezzi corazzati della II Guerra Mondiale, dove i sovietici sbaragliarono i tedeschi.
Il 12 agosto, poco prima di mezzogiorno, il Kursk si era inabissato nel Mar di Barents dopo che il lancio di prova di un siluro aveva accidentalmente causato un paio di esplosioni. A bordo 118 marinai: la maggior parte morì all’istante, 23 sopravvissuti si barricarono in un compartimento posteriore in attesa di un salvataggio che non arrivò mai. Putin, che si era insediato per la prima volta al Cremlino tre mesi prima, continuò a trascorrere le vacanze a Sochi sul Mar Nero. Insabbiò il disastro, respinse le proposte di soccorso di Paesi stranieri finché non fu troppo tardi e non fece alcuna dichiarazione per più di una settimana.
Ventiquattro anni dopo quella tragedia, l’esercito ucraino ha attraversato i confini russi fino a penetrare nella regione di Kursk, teatro dellabattaglia che diede il nome allo sfortunato sottomarino. Una nemesi a prima vista. Tanto che qualcuno ha azzardato sui social: «La presidenza di Putin iniziò con Kursk e ora finirà con Kursk». Ma sono pronostici prematuri. In quasi un quarto di secolo, Putin è sempre rimasto a galla. Ed è stato proprio l’inabissamento del Kursk a insegnargli come.
Quell’agosto del 2000, i media che oggi elogiano Putin erano di proprietà di privati, e non risparmiarono critiche taglienti al leader. «La reputazione della leadership russa giace sul fondo del Mare di Barents», recitava il titolo di un quotidiano. Mentre Pervyj Kanal, il Primo Canale della tv russa, all’epoca di proprietà del defunto magnate Boris Berezovskij, paragonava il disastro di Kursk all’incidente della centrale nuclearedi Chernobyl del 1986 che fu in parte responsabile della caduta dell’Urss. È stato allora che Putin ha capito che, se voleva restare al potere, una stampa libera non poteva avere posto in Russia. Quando il 20 agosto interruppe la villeggiatura a Sochi per incontrare le famiglie in lutto dei membri dell’equipaggio, era già passata più di una settimana dall’affondamento. Non aveva spiegazioni, ma aveva una storia e capri espiatori. Accusò i magnati dei media: «Hanno rubato soldi, hanno comprato i media e ora stanno manipolando l’opinione pubblica». E arrivò persino a insinuare, falsamente, che le vedove fossero prostitute assoldate da Berezovskij per danneggiare la sua reputazione. Nei mesi successivi Putin strappò Pervyj Kanal a Berezovskij e il canale Ntv all’altro magnate delle tv Vladimir Gusinskij. E sei anni dopo l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja fu un inquietante monito per chiunque volesse rivelare la verità sul suo operato. «L’intero processo di indebolimento della democrazia in Russia, per molti aspetti, iniziò allora», commentò nel 15esimo anniversario della tragedia del Kursk Boris Kuznetsov, avvocato dei familiari delle vittime del sottomarino e di Poltikovskaja oggi costretto all’esilio.
Da allora Putin ha continuato a mettere a tacere i media in una campagna culminata con la chiusura delle ultime testate indipendenti e l’arresto o esilio di centinaia di giornalisti dopo l’offensiva contro l’Ucraina lanciata nel febbraio del 2022. È anche grazie al totale controllo dei media che, in trenta mesi di cosiddetta Operazione militare speciale, Putin l’inaffondabile ha finora superato indenne quelle che in Occidente sembrano umiliazioni insuperabili: il fallimento dell’operazione lampo, l’af-fondamento dell’incrociatore Moskva, il ritiro da Kherson, l’esplosione sul ponte di Kersh e l’ammutinamento della compagnia di mercenari Wagner al soldo di Prigozhin.
Di fronte all’avanzata delle truppe ucraine sul suolo russo, memore della lezione di 24 anni fa, Putin ha ostentato trasparenza condividendo i filmati dei vertici del Consiglio di Sicurezza e dei messaggi dei governatori delle regioni colpite. E ha sfruttato l’incursione per accusare Kiev di «eseguire la volontà» degli occidentali e di voler «seminare discordia» nel Paese. Se c’è una lezione che ha imparato dalla tragedia del Kursk è che, più che l’incompetenza militare o la rabbia pubblica, è una stampa libera a poter condannare la sua presidenza. E oggi non c’è più nessuno a smentire le sue bugie.