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 2024  agosto 11 Domenica calendario

Intervista a Paul Schrader

All’interno del gruppo di cineasti che all’inizio degli anni Settanta hanno dato vita alla cosiddetta Hollywood Renaissance, Paul Schrader è tra coloro che è riuscito a eccellere in campi diversi: è stato un critico a cui dobbiamo un libro fondamentale quale Trascendental style in film: Ozu, Bresson, Deyer; uno sceneggiatore che ha firmato almeno due capolavori come Taxi Driver e Toro Scatenato e un regista che ha realizzato magnifici film d’autore quali Mishima e First Reformed oltre a opere di successo commerciale quali American Gigolo. Cresciuto secondo i dettami della più rigida educazione calvinista, ha visto un film per la prima volta quando aveva 17 anni, senza rimanerne particolarmente impressionato, e solo in seguito ha cominciato a studiarne la storia, ammirando in egual misura il grande cinema hollywoodiano, le opere dei cineasti indipendenti e quello che in America chiamano world cinema. «Ho una formazione da autodidatta», racconta nella sua casa newyorchese «e quindi inevitabilmente disordinata, ma il grande cinema hollywoodiano rappresenta un elemento fondante della mia cultura e di quello che ho realizzato come autore. Solo per fare un esempio, un’opera per me imprescindibile è Vertigo/La donna che visse due volte: è un film assolutamente d’autore, realizzato all’interno di uno studio e quindi con una concezione industriale».
Hitchcock venne chiamato a Hollywood da David O.
Selznick per girare Rebecca la prima moglie: crede che nell’avventura americana abbia perso qualcosa da un punto di vista artistico?
«Io apprezzo molto i film che Hitchcock ha girato in Inghilterra e in quelle prime pellicole era già evidente tutta la sua grandezza. Tuttavia nel suo caso l’avventura hollywoodiana non solo non ne ha limitato il talento ma anzi gli ha consentito di realizzare numerosi capolavori. È importante ricordare che a pochi mesi di distanza da Rebecca venne realizzato Via col vento, forse il più grandioso film hollywoodiano di tutti i tempi, mentre Orson Welles girava un film fondamentale e per molti versi antitetico come Quarto potere. Il biennio 1939-1940 è considerato ancora oggi il momento massimo dell’età dell’oro, e nel giro di pochissimo tempo sono usciti anche Ombre rosse, Ninotchka, Il mistero del falco, Scandalo a Filadelfia, I dimenticati, Mr.Smith va a Washington, Fantasia, Scrivimi fermo posta, Il grande dittatore, Vogliamo vivere e molti altri classici».
Budd Schulberg, sceneggiatore di Fronte del porto, sosteneva che i tre principali prodotti di Hollywood sono «il cinema, l’ambizione e la paura».
«Aveva perfettamente ragione e le tre cose sono indissolubilmente legate. Ma non si deve dimenticare che Schulberg era orgogliosamente newyorchese e come tale vedeva Hollywood con severità e poca empatia».
Uno dei pilastri di Hollywood è stato lo star system.
Che cosa trasforma un attore o un’attrice in una star?
«Se fossi in grado di rispondere sarei miliardario. Persino coloro che hanno dedicato la loro vita alla costruzione delle stelle a volte hanno sbagliato: pensa a Hildegard Knef su cui vennero fatti enormi investimenti per farla diventare una nuova Marlene Dietrich. Ciò che rende una star qualcosa di misterioso è un elemento profondamente sessuale. Ha a che fare con la bellezza ma non è la bellezza, e seduce il lato femminile degli uomini e quello maschile delle donne. Esiste poi la categoria delle superstar, che vengono idolatrate da entrambi sessi».
Nella Hollywood classica a volte sono diventate star attori e attrici senza un autentico talento.
«Il primo nome che mi viene in mente è Humphrey Bogart, ma aveva una presenza straordinaria e quando entrava in scena attirava tutta l’attenzione su di sé. Penso anche a John Wayne: non era particolarmente bello e forse neanche troppo bravo. Sospetto che a volte neanche sapesse cosa stava facendo nei suoi film, eppure era e rimarrà un’icona imprescindibile».
Qual è la lezione più grande del periodo d’oro di Hollywood?
«Che l’arte può essere realizzata anche all’interno di una concezione industriale, che evolve e si arricchisce continuamente nutrendosi di altre forme di espressione artistica come il teatro, e per quanto riguarda la generazione precedente alla mia, la televisione. Pensa a Sidney Lumet, Robert Altman e Sydney Pollack, o perfino un ribelle indipendente come Sam Peckinpah il quale nasce in televisione, eppure il suo stile è straordinariamente cinematografico. L’idea di cinema indipendente è sempre stata presente a Hollywood, ma sino a John Cassavetes era qualcosa di estremamente marginale. Poi con Faces ha rivoluzionato il linguaggio e indirettamente l’industria, che ha avuto la scossa definitiva con Easy Rider. Una delle grandi differenze apportate dalla mia generazione è l’aver spostato il potere sul regista invece che sul produttore. Con Coppola, Scorsese, Spielberg, De Palma, Friedkin e tutti gli altri è nata una generazione di registi che avevano studiato il cinema nei college; prima di farlo lo conoscevano già teoricamente alla perfezione. Anche se all’epoca continuavano a lavorare giganti come Billy Wilder, non eravamo in competizione con le precedenti generazioni, ma con noi stessi».
Vi aspettavate di avere tutto questo successo cambiando il linguaggio cinematografico e la struttura industriale del cinema?
«Non ci mancava l’ambizione e a volte anche l’arroganza. Era chiaro a tutti che gli studios non erano più il luogo dal quale nascevano le proposte che conquistavano il mondo: alcuni dei mogul che avevano creato Hollywood erano morti e altri erano molto anziani: non riuscivano più a interpretare le esigenze e i sogni giovanili, continuando a realizzare film che rispondevano alla loro estetica e condannando al disastro commerciale pellicole come Hello Dolly. I giovani si aspettavano film come Fragole e sangue ma quei mogul non avevano la più pallida idea di come realizzarli».
Oggi stiamo assistendo a una nuova rivoluzione, causata dall’avvento dei canali in streaming.
«Da un punto di vista produttivo, Netflix, Amazon, Apple e gli altri streamers si sono aggiunti agli studios classici come la Paramount e la Warner Bros. In questo senso il regista ha nuovi interlocutori vogliosi di affermazione, e se si tratta di un cineasta prestigioso riesce a ottenere che il film venga distribuito per qualche settimana nelle sale. Il problema è quando i film sono visti sullo schermo televisivo o peggio sul computer: il cinema è il linguaggio delle immagini in movimento che genera un’opera proiettata su uno schermo più grande degli spettatori, che la vedono in una sala buia insieme a sconosciuti. Se manca uno di questi elementi parliamo di qualcosa che può certamente generare opere bellissime, ma non credo che si possa parlare più di cinema. Proprio questa situazione di incanto era la quintessenza del grande cinema hollywoodiano».