Robinson, 11 agosto 2024
Intervista a Teobaldo Rivella
Pare vengano da tutto il mondo a rifornirsi di qualche bottiglia del suo Barbaresco. Arrivano come turisti un po’ speciali per girare le Langhe e fanno sosta da Teobaldo Rivella. Mi trovo davanti alla sua casa che affaccia sulla bellissima vigna di Monte Stefano quando vedo una famigliola belga uscire con un paio di cartoni del suo vino. Lui, ancora giovane, è stato un buon ciclista. Oggi fa il commentatore televisivo. Qui, dice Rivella, arrivano grandi sportivi, industriali, avvocati. Ma poi timidamente si chiude a riccio: «In questa epoca in cui tutto è pubblico, tutto è leggibile o udibile – dalla frase all’immagine, dal “like” allo sputo – mi pare il minimo che io possa fare». «E cioè?» chiedo. Mi guarda con l’aria giovanile di chi dimostra dieci anni di meno degli 81 che dichiara: «Da me non vengono i nomi, che sono a volte altisonanti, vengono le persone. La mia cortesia è quella di non far loro pesare lo stupore che a volte provo».
Lo stupore e il vino possono diventare un buon punto di partenza.
«Che il vino generi uno stato di ebbrezza è noto.
Che l’ebbrezza possa accostarsi allo stupore non saprei. Lo stupore lo provo guardando la mattina presto la mia vigna. Vedere il sole, ancora gentile, che accarezza e illumina i filari. Per me è come seogni volta si ripetesse l’abbraccio miracoloso tra la terra e il cielo. E ringrazio Dio di essere nato qui».
Qui dove?
«In una cascina, da una famiglia contadina. Sono nato a Barbaresco nel 1943. Quando ho cominciato a parlare e a camminare sentivo i miei che raccontavano ancora della guerra e dei partigiani che in queste zone sono stati decisivi. Ricordo mio nonno Pietro e mio padre Serafino che fecero i primi passi nel trasformarsi in viticoltori. Mio nonno materno si chiamava Teobaldo e io, per omaggio a lui, presi il suo nome».
Fu un monaco a quanto pare il primo Teobaldo.
«Qualcuno della chiesa mi parlò di questa figura che visse intorno all’anno Mille, ma non ne so molto di più. Da ragazzo ho preferito apprendere l’arte contadina che quella religiosa. Anche se il legame con la religione da queste parti è stato forte. Ma in certe annate la fede non bastava se volevi sopravvivere. Oggi non sappiamo più cosa voglia dire sopravvivere».
Per il mondo contadino era resistere alle annate storte.
«Era dura, certo. La vigna negli anni Cinquanta permetteva appena un reddito senza che la famiglia potesse mettere qualcosa da parte. Ci arrangiavamo con l’orto e qualche bestia. Dopo la scuola portavo la mucca al pascolo, raccoglievo l’erba per i conigli. Era un’economia elementare. Si compravano quasi esclusivamente il sale e lozucchero e qualche indumento ai mercati che girovagavano di paese in paese. Si sognava una vita migliore, ma in fondo se oggi ripenso a come eravamo mi viene una strana nostalgia».
Cosa le manca di allora?
«La semplicità dei legami, l’amicizia schietta, la tranquillità. Intendiamoci c’era molta miseria. Qui la chiamiamo “malora”, la malasorte per una terra spesso avara. La vita media delle persone non arrivava a sessant’anni, non c’erano le comodità e sentivamo lo sgomento per l’inverno in arrivo. Cosa ci avrebbe riservato? Per un bambino le giornate diventavano insopportabilmente lunghe».
Si annoiava?
«Solo nei mesi tremendi, per il resto non ne avevo il tempo: la scuola, i lavoretti nei campi, l’attesa della domenica. Lo zio Amedeo mi portava a tartufi. A dieci anni mi regalarono un cane e lo addestrai per scovarli. Mi imbattei quasi subito in un tartufo di mezzo chilo e in altri due di un etto e mezzo ciascuno. La fortuna dell’esordiente. Andai ad Alba dal grande Giacomo Morra per venderli. “Li hai trovati tu?”, mi chiese. Disse che la terra sa essere generosa con chi la ama e li acquistò dandomi poi un bacio sulla fronte».
Era un bel gruzzolo immagino.
«Lo consegnai a mia madre, in casa non c’erano abbastanza soldi. Ero fiero di me e felice di vivere in quel mondo. Mi bastava a volte correre a perdifiato e poi fermarmi davanti al paesaggio collinare per sentirmi in pace, appagato grazie a tutto quello che avevo intorno. Le risorse interiori di un bambino sono più ricche e belle di quelle di un adulto.
Perfino la religione con le sue processioni, le sue messe, le sue prediche per noi piccoli era un’occasione di gioco, di divertimento. E se c’era l’inferno, che qualche parroco minacciava come pena suprema, giungeva solo in sogno la notte a spaventarmi. Ma all’arrivo del giorno tutto spariva».
E il vino, quando ha cominciato a occuparsene?
«Credo di essere stato un predestinato. Avevo sette o otto anni quando ho iniziato a giocare con il vino. A farlo con i grappoli di San Martino, quelli che maturano tardi e che i contadini non raccoglievano.
Ero io a prenderli e a pigiarli in un bidone delle acciughe. Mio padre Serafino si divertiva a vedermi “imbrattato” dal succo rosso, le mani e le braccia e la maglietta tinte e sgocciolanti rubino. Poi però arrivarono gli anni duri. Quella stagione che mi sembrava carica di futuro cominciò a confondersi.
La priorità fu un lavoro certo che aiutasse concretamente la famiglia. E qui, nella nostra zona, l’unica cosa certa era la Ferrero. Mi impiegai con la qualifica di meccanico. Ho sempre avuto capacità manuali, ancora oggi se c’è da aggiustare un attrezzo o un motore sono io che me ne occupo. Ma non ho mai dimenticato la vigna, e gli insegnamenti di quei saggi che hanno reso grandi le Langhe».
A chi pensa?
«Per il Barolo a Bartolo Mascarello, al mio amico Beppe Rinaldi, detto Citrico, per via del carattere, a Lorenzo Accomasso, al mio omonimo Teobaldo Cappellano, tutti autentici difensori della tradizione. Contadini liberi e ostinati».
Vi accusano di essere troppo legati al passato.
«È la terra che ha bisogno del passato, di qualcuno che si ricordi com’era per trattarla con rispetto.
Ricordo ancora la lettera che poco prima di morire Beppe mandò alCorriere della Sera. Era una richiesta intelligente e accorata, quantunque brusca com’era lui, sui seri pericoli che una produzione dissennata di Barolo e Barbaresco avrebbeprovocato sul territorio e sul paesaggio, deturpando entrambi».
In quella lettera diceva che non si possono considerare gli alberi dei nemici, degli ostacoli da rimuovere o abbattere.
«Per Beppe gli alberi erano l’unione tra il cielo e la terra. Lui purtroppo è morto sei anni fa e non so quanto le sue parole siano state ascoltate. Una delle sue frasi abituali, che gli aveva trasmesso Mascarello, era che Barolo e Barbaresco non vanno incipriati».
Non hanno bisogno del velo del trucco.
«Tradurrei così: il vino non è una moda, è tradizione. Nel mio piccolo ho sempre cercato di difendere quest’ultima».
A proposito di moda, a un certo punto ci fu l’infatuazione per i rossi francesi.
«Le loro etichette erano nei nostri pensieri. Ricordo i racconti di Bruno Ceretto, tornato dalla Borgogna nella seconda metà degli anni Sessanta. Ci insegnò che sì erano grandi i loro viticoltori ma che il nostro vino non era inferiore e col tempo avemmo potuto competere».
Ma alla fine cosa vuol dire fare vino?
«Per me è fare la cosa giusta. Non è molto diverso da chi lavora il legno o il metallo o svolge il lavoro più umile. La cosa giusta è sapere quando sbaglio, o quando avverto che avrei dovuto essere più disciplinato. Qui vengono a trovarmi delle leggende assolute, so che più di tanto non potrò dargli e soche è giusto così».
Lei è un piccolo produttore per scelta?
«Ho sempre deciso di fare le cose alla mia maniera, ho respinto fermamente la moda della barrique, ho difeso l’idea del piccolo non perché è bello, ma perché necessario, non ho mai usato la chimica per potenziare e alla fine avvelenare i terreni. Sono state queste le mie scelte e a volte mi sento come l’ultimo dei Mohicani».
Si è parlato di Barolo e di Barbaresco. Dovesse raccontarli a un profano come li distinguerebbe?
«Tanto il primo è forte e dominante quanto il secondo è gentile e accogliente. Il vitigno è lo stesso. Tutti e due provengono dal Nebbiolo, la differenza la fa il terreno».
Un Barbaresco senza cipria per stare alla battuta di Mascarello.
«Questa idea della cipria mi fa venire in mente un’etichetta che uno storico produttore di Neive disegnò per la sua bottiglia di grappa».
A chi si riferisce?
A Romano Levi, che Luigi Veronelli definì “Grappaiolo Angelico”, tanto la sua grappa era sublime. Romano Levi aveva l’abitudine di disegnare a mano le etichette per le sue bottiglie. E una di queste fu “La donna selvatica”, che Romano immaginò come uno spirito libero e ribelle che ogni tanto, si favoleggiava, compariva sulle colline delle Langhe. Levi fu un personaggio straordinario e paradossale».
Paradossale?
«Era, per intenderci, un avaro disinteressato al denaro. Quando morì trovarono nei suoi cassetti montagne di assegni mai riscossi».
Luigi Veronelli lo ha conosciuto bene?
«Ero giovane quando l’ho incontrato la prima volta, e credo che se il vino è parte essenziale di una letteratura minore, si deve in massima parte a Luigi Veronelli e a Mario Soldati».
Lo sa che Veronelli all’inizio ebbe una promettente carriera di studioso della filosofia?
«No, non lo sapevo. A me piacevano i modi un po’ ribelli, anzi anarchici con cui difendeva le sue idee sul vino».
Tra un po’ cadranno i vent’anni dalla morte. Non so se verrà ricordato.
«Beh, lo meriterebbe. Qui con lo scandalo del metanolo nel 1986 si toccò il punto più basso dell’immagine delle nostre terre, per colpa di alcuni mascalzoni. Fu Veronelli tra i pochi venuti da fuori a difenderci alla sua maniera e a dire che quella lezione ci sarebbe servita per far rinascere tutto il territorio».
Usa spesso la parola “territorio”, che cosa intende?
«È vero, tendo a ripetermi. Ma la verità è che per meterritorio significa comunità. Ed è questo lo spirito giusto per affrontare le cose».
Cioè?
«La comunità è fatta di legami, anche di contrasti e di differenze, ma alla fine conta l’obiettivo comune. Difendere il territorio è la stessa cosa che difendere la comunità che lo abita e lo vive».
Difenderlo in che modo?
«C’è un’immagine che può rendere l’idea: non puoi costruire una casa cominciando dal tetto. Devi prima pensare alle fondamenta. Se queste sono solide allora verrà su bene. È un concetto che ho appreso dai personaggi che non ci sono più: Bartolo, Citrico, Gigi, che era poi Veronelli. È una terra antica la nostra, solo qui poteva nascere un Carlin Petrini e la sua missione di Slow Food, solo qui una università come Pollenzo che pensa ai valori e alla cultura del cibo, della terra e del vino.
Solo qui poteva sorgere una certa letteratura».
Legge?
«Poco, perché non è molto il tempo della giornata che mi resta. Ma ho sempre presente, come leggenda di questa terra, Beppe Fenoglio. Lessi La malora. Quante volte sentii mio padre e mio nonno disperarsi per i raccolti grami e parlare di sfortuna.
Io produco vino, Fenoglio produceva parole bellissime e strane come la sua faccia. Sono orgoglioso di essere nato e vissuto nella stessa terra che è la sua e la mia terra».