La Lettura, 11 agosto 2024
Il nostro Paese ha più che raddoppiato le foreste rispetto al periodo fra le due guerre. Un terzo è fatto di bosco
Nel 1953 il romanziere francese Jean Giono pubblica un racconto di poche pagine intitolato L’uomo che piantava gli alberi. È la storia di Elzéard Bouffier, pastore francese che percorre in lungo e in largo le pendici alpine della Provenza dove pianta una ghianda dopo l’altra, convinto che il bosco farà presto ritorno in terreni che l’uomo ha fortemente modificato e coltivato. In effetti, basta poco, giusto gli anni insanguinati della Prima guerra mondiale, che il narratore passa lontano dalla Francia meridionale. Una volta tornato, nota che l’opera del pastore è riuscita: ovunque ci sono querce, faggi, betulle. Non solo: dove gli alberi sono tornati a ricoprire valli e crinali, la natura sembra rifiorire in ogni suo aspetto, dal fluire dell’acqua alla presenza di animali selvatici.
Bouffier, figura mai realmente esistita, ha favorito quella che oggi chiameremmo rinaturalizzazione. Il racconto allegorico di Giono, che in libreria fu un successo di vendite straordinario, suggerisce l’idea che il destino del bosco europeo sia sempre nelle mani degli esseri umani. Che il suo ritorno non possa avvenire se qualcuno – e basta soltanto una persona volenterosa e sognatrice – non si sporca le mani e passa all’azione. La storia è piena di Elzéard Bouffier. Il pioniere americano Johnny Appleseed piantò un’infinità di meli durante la conquista del West, diventando una figura cardine della cultura natural-gastronomica americana. Il naturalista croato Ambroz Haracic ricoprì di conifere l’isola di Lussino, nell’Alto Adriatico.
Eppure, sebbene le campagne di riforestazione possano rappresentare una carta potente da giocare in situazioni difficili, spesso la copertura forestale di un Paese fluttua in base alla mera presenza umana. Lo stato attuale dei boschi europei, infatti, è il risultato di un rapporto, che dura da millenni, fra la popolazione del Vecchio Continente e gli alberi che lo ricoprono.
L’Italia, in questo senso, è un esempio perfetto. Attualmente i boschi occupano circa un terzo della penisola. Può sembrare bizzarro a molti, ma il nostro Paese oltre a essere ricco di spiagge, coste, isole, città d’arte e specialità eno-gastronomiche è anche una terra di alberi, di estesissime foreste alpine e di buie selve appenniniche. Il dato appare ancora più incredibile se lo paragoniamo a quelli raccolti un secolo fa, negli anni Venti e Trenta del Novecento. Se nel periodo fra le due guerre la superficie boscata superava di poco i 5 milioni di ettari, oggi raggiunge gli 11 milioni. In cent’anni il bosco ha riconquistato terreno e raddoppiato la sua estensione. Sono numeri che di solito lasciano il pubblico sbigottito. Abituati come siamo a pensare in termini di deforestazione – una piaga che colpisce soprattutto le preziosissime foreste tropicali, dove purtroppo per noi è concentrata gran parte della biodiversità terrestre – non possiamo credere al fatto che abitiamo un Paese di boschi in netta espansione.
Il ritorno del bosco in Italia (così come in Europa) è un fenomeno favorito dalla nostra assenza. Dagli anni del boom economico in avanti, la popolazione ha lasciato in massa valli montane, cittadine e paesi di collina, aree suburbane. Il trasferimento in città ha creato un grande vuoto, un buco generato da attività agricole interrotte, mandrie abbandonate, località depopolate. Questo calo della presenza umana in territori di confine con il bosco, ha agevolato il ritorno del verde. Gli alberi si sono «mossi», generazione dopo generazione, colonizzando quei luoghi che ci siamo lasciati alle spalle e che la crisi di numerosi mestieri e stili di vita tradizionali ha lentamente reso deserti. Le opere di riforestazione e le leggi di tutela ambientale e paesaggistica hanno poi fatto il resto, determinando la situazione attuale.
Questo fenomeno, tuttavia, non ci deve trarre in inganno. Non deve farci automaticamente pensare che i boschi europei siano formazioni essenzialmente naturali. In tutta Europa, infatti, e in particolare nei Paesi dell’Europa centrale, la composizione del bosco è sempre stata il risultato del rapporto fra Homo sapiens e alberi. Per millenni gli esseri umani hanno modificato, trasformato, tagliato, piantato, selezionato e coltivato i boschi europei, plasmandoli e piegandoli ai loro fini. Un’opera che continua tuttora e che genera molti dubbi sul concetto di naturalità di ogni selva, che sia italiana, slovena o finlandese. In Italia ne sono un esempio le estese foreste di abete rosso che sorgono nelle regioni nord-orientali. Sono foreste che gli esseri umani hanno piantato e curato, in larga parte nel periodo compreso fra le due guerre, come ricorda Mario Rigoni Stern in diversi suoi scritti, fra cui la raccolta Arboreto selvatico. Sono foreste monospecifiche, figlie di un tempo in cui con l’abete rosso si faceva di tutto, dai mobili alla legna da ardere. Essendo molto omogenee, sono purtroppo largamente esposte all’azione dei patogeni (il bostrico, un coleottero, in questi anni sta compiendo una strage) e alle calamità naturali (come la devastante tempesta Vaia dell’autunno del 2018, che ha abbattuto milioni di esemplari in Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Lombardia).
I boschi europei oggi sono in larga parte così: poco naturali ma in continua crescita, spesso fragili. Da più parti si leva un coro di richieste. Dovremmo gestirli meglio. Dovremmo poterli sfruttare in modo sostenibile, ma è impossibile farlo se non si applica una gestione forestale rigorosa e rispettosa. Dovremmo favorirne la resilienza, affinché possano diventare uno strumento cardine nella lotta alla crisi climatica. La nuova Strategia forestale nazionale, approvata in Italia nel 2022, sembra essere il primo passo, almeno nel nostro Paese, verso il riconoscimento del ruolo determinante dei boschi della penisola nel futuro di tutti noi.