Corriere della Sera, 12 agosto 2024
I numeri del disagio giovanile
L’obiettivo è nobile: ridurre il debito. E così spesso le leggi di Bilancio alzano le tasse e tagliano la spesa. Questa non è mai ridotta esplicitamente: il costo politico sarebbe troppo elevato, ma non si recupera la perdita dovuta all’inflazione. Quest’anno le pensioni, soprattutto quelle relativamente basse, stanno tenendo il passo con l’aumento dei prezzi, ma il finanziamento pubblico per la sanità scende, in termini «reali», cioè al netto dell’inflazione, del 6,2%. E la spesa reale per altre prestazioni di welfare, escludendo sanità e pensioni, cala del 15%.
Molte famiglie hanno dovuto ridurre i loro consumi: anche questo ha prodotto il rallentamento della crescita. E il debito, in rapporto al Pil, anziché scendere, sale.
Non tutti ovviamente sono colpiti allo stesso modo. Chi ha investito i propri risparmi in titoli a reddito fisso, il cui rendimento reale è salito del 15% ha risentito meno del taglio in sanità e welfare, anche se in passato, quando i tassi di interesse erano vicini allo zero, sotto il tasso di inflazione, aveva perso.
L’anno scorso la legge di Bilancio prevedeva una decontribuzione per i salari inferiore ai 35 mila euro. Ma la misura venne finanziata solo per un anno e scadrà a Natale: la nuova legge di Bilancio partirà quindi con un deficit di circa 11 miliardi, tanto costa reintrodurre quella decontribuzione. A questo andrà aggiunta la promessa (vedi l’intervista del viceministro Maurizio Leo sul Corriere di sabato scorso) di estendere la decontribuzione al ceto medio, cioè a chi guadagna più di 35 mila euro.
Il problema delle nostre leggi di Bilancio è che il loro orizzonte è troppo breve: ci si preoccupa dell’anno che viene, non c’è mai lo spazio per affrontare problemi la cui soluzione richiede tempi lunghi. Le nuove regole fiscali europee, approvate la scorsa primavera, cambiano la prospettiva. Gli obiettivi che da quest’anno il bilancio dovrà porsi devono essere traguardati a quattro o sette anni.
L’Italia ha scelto, giustamente, l’orizzonte più lungo, sette anni. Le nuove regole lo consentono, a due condizioni. Che non sia una scusa per spostare al futuro, magari dopo le prossime elezioni, le misure più difficili, e che il piano a sette anni sia accompagnato da un programma di riforme, cioè da una visione sul futuro del Paese. Insomma, da una legge per ragionieri, si passa ad una legge politica.
Avere una visione sul futuro del Paese significa chiedersi quali sono le nostre maggiori debolezze. Oggi chi perde sono soprattutto le coppie giovani o chi vorrebbe formare una famiglia e non ce la fa. È importante capire perché. Come ha spiegato Marco Leonardi(«I veri salari da migliorare in Italia sono quelli alti, non quelli bassi», Il Foglio, 23 maggio 2023) c’è un tema di precariato che riguarda 2-3 milioni di persone: questo fenomeno, negli anni recenti si è un po’ attenuato ma se n’è aggiunto un altro, ancor più rilevante: riguarda il livello dei salari e le carriere dei giovani che lavorano a tempo pieno.
I camerieri che lavorano con un contratto a tempo indeterminato, percepiscono un salario più elevato in Italia (29 mila euro l’anno) che in Francia (26 mila). Ma appena saliamo verso l’alto, verso posizioni più elevate del cameriere, il quadro cambia. Il numero di posizioni che pagano salari relativamente alti sono meno in Italia che in Francia. Non solo sono meno, pagano anche meno: 4.600 euro mensili lordi in Francia, contro 4.000 in Italia, se guardiamo al 10% di salari più elevati.
Questo si collega ad un altro fatto: le nostre imprese offrono poche posizioni dirigenziali e per di più le pagano poco. È per questo che i giovani italiani emigrano: non tanto perché i lavori che trovano spesso sono precari, ma soprattutto perché le prospettive di carriera non sono soddisfacenti. I giovani italiani sono relegati sempre più nei livelli inferiori delle gerarchie aziendali.
È una questione di rapporti di potere tra generazioni in azienda più che una questione di rapporti economici, come mostrano Nicola Bianchi e Matteo Paradisi in uno studio su dati Inps. Dal 1985 al 2015, la probabilità che i lavoratori più giovani si trovassero nel quartile più alto della distribuzione dei salari è diminuita del 34%, mentre la stessa probabilità, per i lavoratori più anziani, è aumentata del 16%. Inoltre, la probabilità che i lavoratori più giovani ricoprano posizioni manageriali è diminuita di due terzi, mentre è aumentata dell’87% tra i lavoratori più anziani.
Il risultato è che nel 2023 il saldo migratorio con l’estero, cioè la somma di chi arriva in Italia, meno chi se ne va, è stato a +274 mila unità, un guadagno di popolazione ottenuto come effetto di due dinamiche opposte. Da un lato, l’immigrazione straniera, ampiamente positiva (360 mila), controbilanciata da un numero esiguo di stranieri che lasciano l’Italia (34 mila). Dall’altro, un numero di espatri di italiani, per lo più giovani(108 mila), che non viene rimpiazzato da altrettanti rimpatri (55 mila) Cioè un guadagno netto di cittadini stranieri (+326 mila) e una perdita di cittadini italiani (-53 mila). Indice di quanto le crescenti difficoltà affrontate dai giovani rinforzino la tendenza sempre più frequente a spostarsi fuori dall’Italia.
Un’indagine dell’Agenzia italiana per la gioventù, realizzata tra dicembre 2023 e febbraio 2024 utilizzando un campione rappresentativo di giovani residenti in Italia, di età compresa tra i 15 e i 35 anni, mostra che ciò che più li preoccupa è un lavoro sottopagato (54,7%) o instabile (47,3%). Soltanto in coda alla graduatoria delle preoccupazioni si collocano il timore di dover lavorare nei giorni festivi e/o in orari notturni (8,6%) e quella di doversi trasferire in un’altra Regione/Paese (13,8%), restituendo una fotografia del tutto antitetica rispetto alla narrazione dei «fannulloni».
Ne emergono giovani donne e giovani uomini che ambiscono ad una prospettiva di carriera, ad un orizzonte stabile e di crescita che permetta loro di crearsi una famiglia, magari avere dei figli.
Siamo sicuri che ciò possa avvenire con una crescita basata su un turismo mordi e fuggi dove la prospettiva è quella di fare al massimo il cameriere o il bagnino (anche se qualcuno può sempre sperare di arricchirsi ereditando una concessione balneare)? Sono domande che invitano a riflettere su quanto sia lungimirante compiacersi di una crescita basata su servizi poveri.
Come pure se sia realistico puntare su una scuola che continua a fare finta che la rivoluzione tecnologica stia interessando tutto il mondo tranne il nostro Paese. Le recenti linee guida del ministero per l’Istruzione e il merito per le discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) sono molto precise nel descrivere l’obiettivo di sviluppare e rafforzare le competenze Stem in tutti i cicli scolastici, dall’asilo nido alla scuola secondaria di secondo grado, in particolare per le donne. Peccato che non dedichino neppure una riga al tema di dove si troveranno insegnanti capaci di fare tutto ciò.