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 2024  agosto 11 Domenica calendario

Intervista a Pietrangelo Buttafuoco

«Non sopporto i premi letterari», dice Buttafuoco. Che si racconta. 
Pietrangelo Buttafuoco, come si sta sulla sedia del presidente della Biennale di Venezia? 
«Molto bene: un contesto internazionale, una squadra straordinaria. Mi piace osservare dove sta andando il mondo attraverso le arti».
A proposito di direzioni: in queste pagine, settimane fa, Paolo Repetti notava che non ci sono più comunità letterarie di riferimento.
«In un certo senso è vero. I codici oggi sono frantumati, c’è uno sciame di voci e sensibilità diverse. Un esempio: alla fine degli Anni 40 un capolavoro letterario come Il cielo è rosso di Giuseppe Berto poteva essere riconosciuto tale perché c’erano “gli occhiali” del Neorealismo. Oggi è difficile guardare un’opera attraverso codici condivisi».
E questi «codici condivisi» sono anche quelli che hanno prodotto romanzi come Il Gattopardo, imperniati su una forte identità nazionale?
«Sì, in fondo quello è un grande romanzo su Garibaldi, solo che viene affrontato da un altro punto di vista. Personalmente però preferisco I Viceré di Federico De Roberto».
Forse un po’ troppo «denso» per le nostre abitudini di lettura, oggi?
«Oggi è complicato entrare in certe opere. Penso solo al viaggio che si potrebbe fare nell’universo di Petrarca, qualcosa che ti restituisce la gabbia interpretativa per leggere il mondo. La letteratura è questo e perciò non va cercata nella semplice narrativa. Che, per carità, può essere piacevole, ma è altro».
Un esempio di «letteratura» oggi?
«Il fuoco che ti porti dentro di Antonio Franchini. E sa perché dico che è letteratura? Perché l’altra sera, dopo averlo letto, ne ho discusso per ore con amici. Ciascuno di noi vi aggiungeva qualcosa. La letteratura vera ingloba una parte della tua vita, non solo le tue opinioni o i tuoi gusti».
George Steiner era convinto che le etichette di «narrativa» e «saggistica» fossero fuorvianti.
«Ma certo. Un altro esempio: gli scritti di Paolo Isotta sono pura letteratura, anche se non propriamente narrativi. Sul versante più squisitamente romanzesco, penso a Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Ma le chiedo: in quanti, in Italia, conoscono Cavazzoni? Pochi. Eppure in Turchia tutti, dai professori ai conducenti di mezzi pubblici, sanno recitare a memoria le poesie di Rumi. Tutto questo non solo consolida una cultura, ma rende consapevole un popolo delle proprie potenzialità. Non è una questione identitaria, è culturale».
Quanto conta il coraggio di una casa editrice?
«Moltissimo. Io penso che oggi pochi editori abbiano la voglia e il senso del dovere di accostarsi a una idea di grandezza. Altro esempio: Arnoldo Mondadori in persona investì molto in un libro che tutti sapevano che avrebbe venduto pochissimo, ma che ha elevato la qualità del catalogo. Il libro è Horcynus Orca, romanzo di Stefano D’Arrigo, il nostro Joyce. Una passeggiata tra le macerie della guerra che racconta una intera epoca».
Però ancora oggi una casa editrice ha il potere di connotare autori e libri. Per dire, se Piperno avesse pubblicato con Adelphi, forse la sua opera sarebbe stata diversa. Non dico «migliore» o «peggiore», ma diversa.
«Forse non è stato un male per lui».
Perché?
«Perché a fronte di un glorioso catalogo, nelle scelte più recenti Adelphi ha avuto un cedimento piritollo».
Che vuol dire «piritollo»?
«Autori “con il ditino alzato”, di quelli che piacciono al pubblico di Fabio Fazio».
Fuori i nomi.
«No». 
Buttafuoco, in questa conversazione c’è un elefante nella stanza ed è la domanda: dove sono finiti gli autori e le autrici di destra?
«Destra e sinistra sono categorie superate».
Del tutto? Mi pare che in politica in Italia certi valori siano rivendicati, eccome.
«Guardiamo il mondo. Destra e sinistra sono state soppiantate da una nuova lotta di classe tra sopra e sotto. Sotto ci sono i paesi ormai ex poveri, nuovi marxisti ricchi di figli e tecnologia, dalla Cina a una parte dell’Africa. E sopra ci sono i trotskisti, quelli dell’establishment, inclusa la cultura cosiddetta “woke”. È questo il nuovo conflitto, perché il Novecento è finito e l’Occidente non si sente tanto bene. E infatti, sul piano dello scontro ci si è spostati dal razzismo al classismo».
Se dovessimo citare uno scrittore capace di trasfigurare in letteratura questo scenario potremmo dire Michel Houellebecq?
«No, penso che oggi non ci sia uno scrittore capace di raccontare questo passaggio».
Perché?
«Perché la letteratura è un atto poetico e può farti male. Oggi c’è è il trionfo del politicamente corretto. Se rinascesse Liala, il suo aviatore sarebbe un eroe del culto “woke”».
C’è anche chi si chiede che fine abbia fatto l’epica nei romanzi. Secondo lei, in Gomorra c’è epica?
«C’è una parte di epica e una parte di marketing. Al libro di Saviano preferisco Il libro napoletano dei morti di Francesco Palmieri, che è un po’ poeta e un po’ maestro di arti marziali».
Apollo e Dioniso.
«Vanno sempre insieme, si sa. Ecco, io oggi trovo che la letteratura si annidi nell’incrocio tra le arti. Ho avuto il privilegio di lavorare con Luciano Violante, che ha scritto bellissime opere teatrali ispirate ai miti greci. Messe in scena, hanno commosso platee di giovanissimi. Penso a due filosofi come Severino e Cacciari: questi sono nomi che resteranno. Penso a editori come Quodlibet». 
Lei si è convertito all’Islam. In che modo questo ha influenzato il suo approccio alla letteratura?
«Dico solo che tutte le cose disdicevoli – secondo il giudizio comune – che mi hanno accompagnato nella vita mi hanno aiutato a sconfinare nelle praterie culturali con grande libertà».
E questa libertà qualcuno gliel’ha invidiata?
«In modo affettuoso, sì. Uno dei miei più cari amici è stato Eugenio Scalfari: ci scambiavamo le presenze in tv, quando lui non poteva andavo io e viceversa. Un giorno Eugenio mi disse: “Tu hai il vantaggio di aver letto libri che noi non conosciamo e che non conosceremo”».
Con Battiato, però, avevate in comune tante letture.
«Franco aveva lo spirito di uno sciamano».
Gioco della torre: chi butta giù, Pavese o Fenoglio?
«Pavese».
Manganelli o Arbasino?
«Arbasino. Manganelli ci aiuta ancora oggi ad attraversare il presente».
Ginzburg o Morante?
«Mi piace Cristina Campo».
È vero che lei, da giovane, aveva aperto una libreria?
«Sì e un giorno rimasi senza parole quando vennero a trovarmi Sciascia e Bufalino. Oggi aprire una libreria è un atto di coraggio. Anche perché tanta gente è convinta che il consumo culturale sia gratis. E non immagina quanta gente lavori dietro a uno spettacolo, a un film o a un libro. Lancio un appello: pagate per la cultura, pagate».
Un giovane talento che le piace?
«Pietro Castellitto. Il suo film ispirato a Nietzsche (I predatori, ndr ) è notevole». 
Un artista che la ispira?
«Giovanni Lindo Ferretti, cantante dei CCCP – Fedeli alla linea».
Che cosa non sopporta oggi del mondo letterario?
«I premi. Almeno quelli che si trasformano in tornei di vanità».
Buttafuoco, ci sarà mai «un ultimo libro» nella storia umana?
«Presso alcune tribù nomadi ancora oggi si usa mandare a memoria un testo, non trascriverlo. Perché per certe culture la scrittura è una forma di tradimento della parola. Allora, almeno fino a quando esisterà la parola, i libri potranno sopravvivere».