il Fatto Quotidiano, 11 agosto 2024
Gli inviati di guerra a misura d’uomo
Ci furono tempi felici in cui facevo il cronista. All’epoca il curriculum del nostro mestiere aveva step piuttosto precisi. All’inizio ai praticanti si davano da redigere le “brevi”, i TACCUINI, cioè notizie di poca importanza che riguardavano piccoli eventi cittadini.
Se passavi questo step diventavi “inviato di città”. E in una metropoli come Milano non mancavano, soprattutto negli “anni di piombo”, eventi di portata nazionale. Come la misteriosa morte dell’editore Giangiacomo Feltrinelli che mal maneggiando un ordigno morì sotto un traliccio dell’alta tensione a Segrate (Indro Montanelli scrisse crudamente che Feltrinelli era “un povero ragazzo malato di guevarismo”). O la morte di Pino Pinelli, un anarchico del tutto teorico, mite, che dopo un interrogatorio pesante fu fatto “volare” dal quarto piano della Questura di Milano. O il vile omicidio sotto casa del commissario Calabresi. Dopo infinite inchieste della Magistratura i mandanti vennero individuati in Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani, gli esecutori in Ovidio Bompressi e Leonardo Marino. Sofri ottenne, caso quasi unico nella storia giudiziaria italiana, la Revisione del processo ma anche la Revisione lo ritenne colpevole. Ciò non gli ha impedito, scontati sette anni dei ventidue che gli erano stati comminati, di diventare editorialista del più importante quotidiano di sinistra, La Repubblica, e del più diffuso settimanale di destra, Panorama: promosso evidentemente per meriti penali. C’è una fotografia, che conservo gelosamente, di noi della cronaca dell’Avanti!, a cena dopo la morte di Feltrinelli (allora i giornali chiudevano molto tardi, verso le 3 del mattino) Ugo Intini, Liano Fanti, Attilio Schemmari, Arturo Viola e io, felici per aver tenuto botta allo strapotere del Corriere. Insomma anche nelle piccole redazioni, come era quella dell’Avanti!, ci si poteva togliere qualche soddisfazione.
In seguito diventavi inviato “regionale” e poi “nazionale”. Se avevi dimostrato attenzione e interesse per i fatti internazionali diventavi inviato tout court. E qui c’era un altro step. Non è detto che un inviato, anche un grande inviato, abbia la weltanschauung, cioè la visione del mondo, necessaria per commentare fatti di geopolitica.
Le soddisfazioni di un inviato di esteri erano sostanzialmente due. La prima, più importante, era di conoscere culture diverse dalla nostra di cui avevamo solo letto o sentito parlare. Fu in un viaggio in Kenya e Tanzania nel 1970, quando non facevo ancora il giornalista, che cominciai ad elaborare i miei sospetti sulla “cultura superiore” che avrebbero dato poi origine, anni dopo, a La ragione aveva Torto? La seconda è che se stavi un mese, poniamo, nel Sudafrica dell’apartheid, come è capitato a me, dovevi occuparti solo di quello che accadeva in quel Paese, cioè non dovevi seguire quotidianamente le miserie della politica politicante italiana, le catacombali polemiche su fascismo e antifascismo, su Vannacci o sulle dichiarazioni di Mollicone.
Attualmente gli inviati di esteri, soprattutto su terreni di guerra, si dividono in due categorie. C’è chi invece di dar conto di ciò che succede sul campo si inventa come analista dando interpretazioni che si potrebbero fare tranquillamente anche da Milano, da Parigi, da Berlino. C’è invece chi scrive di ciò che succede sul campo, non limitandosi a intervistare questo o quel comandante militare, o un sociologo o un politologo, ma parlando anche col salumiere o il prestinaio. E ti rende quindi l’humus in cui vivono quelle popolazioni. È il cosiddetto giornalismo “in presa diretta” che ha caratterizzato la mia generazione e un paio di quelle successive. A questa categoria appartiene Lorenzo Cremonesi, inviato di lungo corso del Corriere, probabilmente il migliore dopo la morte dell’inarrivabile Ettore Mo, persona, parlo di Mo ma anche di Cremonesi, dai modi assai modesti e riservati come sono tutti quelli che, sicuri del proprio mestiere, non hanno bisogno di dimostrare nulla, da Montanelli a Giorgio Bocca.
Cremonesi ha seguito tutte le più importanti guerre dell’ultimo quarto di secolo, dall’Afghanistan all’Iraq alla Siria, al conflitto israelo-palestinese, alla guerra russo-ucraina. L’ultima volta che l’ho sentito, per telefono, si trovava a Charkiv, sotto le bombe russe. Uno dei pregi di Cremonesi è quello di cercare di entrare nella mentalità anche dei gruppi combattenti la cui ideologia gli è più estranea. La prima volta che incrociai Cremonesi, naturalmente sulle pagine del Corriere, fu in occasione dell’invasione occidentale/Nato dell’Afghanistan del 2001. Raccontava questo episodio. I giornalisti occidentali entravano in Afghanistan dal Pakistan e naturalmente i giovani afghani, cioè i talebani, erano ostili ai giornalisti che appartenevano a Paesi che stavano invadendo la loro terra. Un gruppo di giovani talebani si mise a prenderli a sassate. Ma intervenne un vecchio, in quelle culture l’anziano ha un grande prestigio e non importa che sia un capo clan o una persona qualsiasi, che disse “no ragazzi questo non si fa”. Eravamo a Kandahar l’ultima roccaforte talebana dove gli americani scaricavano bombe su tutto, compresi i campi da gioco dei ragazzini. Annota Cremonesi, “pare incredibile ma a Kandahar regna l’ordine, l’ordine del Mullah Omar”. Perché per il Mullah gli stranieri, a meno che non appartenessero a forze combattenti ostili, erano degli “ospiti”. E ci sono infinite circostanze che dimostrano che tutti coloro che sono stati prigionieri dei Talebani vennero trattati con correttezza, soprattutto le donne, stando molto attenti alle loro particolari esigenze femminili. C’è da tener presente che allora i Talebani, accusati a torto di essere alle spalle degli attentati dell’11 Settembre, erano per l’Occidente “l’orrore puro”. Ci voleva del coraggio per raccontare un episodio a loro favore.
Il bello delle vacanze estive è che, sottratti all’impegno di seguire la politica politicante, ci si può dedicare alla lettura di libri interessanti. Uno di questi è Guerra infinita. Quarant’anni di conflitti rimossi dal Medio Oriente all’Ucraina di Lorenzo Cremonesi, dove l’autore mescola gli eventi di guerra di cui è stato testimone, comportandosi con grande coraggio ma anche con la prudenza necessaria che gli deriva proprio dalla sua esperienza di inviato, alla sua vita personale. Ma vedo che il suo libro ha avuto poche e riottose recensioni, in genere su una media di basso livello. E se Cremonesi ha sentito il bisogno di telefonarmi, perché l’avevo citato favorevolmente in un’intervista a Michele Brambilla del Giornale, vuol dire che si sente un isolato. Invece, a parer mio, meriterebbe il Pulitzer.