Domenicale, 11 agosto 2024
Antoine de Saint-Exupéry. Ottant’anni fa l’ultima missione aerea dell’autore. Non si sa se ebbe un guasto, se sbagliò una manovra o fu abbattuto. Ma allora il disastro era consuetudine...
massimo sestini Zenit della fotografia. Oltre quarant’anni di carriera di Massimo Sestini attraverso i principali episodi della storia italiana, Brescia, Museo di Santa Giulia, dal 24 settembre Quando il 31 luglio 1944, alle 8.35, Antoine de Saint-Exupéry decollò per l’ultima volta, lo fece in deroga ai regolamenti: aveva già compiuto 44 anni e a quell’età di certo non poteva combattere, ma anche per le ricognizioni era anziano. L’età massima, infatti, era 32. Eppure aveva desiderato così tanto servire la Francia contro il nazismo che a forza di insistere già nell’aprile del 1943 aveva ottenuto una dispensa ed era stato aggregato al Gruppo fotografico comandato da Eliot Roosevelt, dando il via a una serie di sortite per attestare posizioni e movimenti nemici che si sarebbero concluse, appunto, con quell’ultimo volo.
Quel giorno lo scrittore era diretto verso la zona di Grenoble-Annecy a bordo di un P 38, mezzo particolarmente affidabile, ma anche difficile da guidare per chi, come lui, era stato un aviatore degli albori e si era abituato a cavarsela quasi senza strumenti: lì ce n’erano anche troppi. Una sera di due settimane prima aveva consegnato la borsa di cinghiale con il manoscritto di Cittadella – l’ultima, monumentale opera inconclusa – al capitano René Gavoille. Questi, che oltre a essere il suo superiore gli era amico, desiderava tenerlo a terra, di lì in poi. Per cui stava ordendo un benevolo complotto con altri graduati: gli avrebbero rivelato dettagli sull’imminente sbarco in Normandia e così avrebbe dovuto giocoforza desistere, per non correre il rischio di finire prigioniero ed essere interrogato. Alle 13 Saint-Ex però non era ancora tornato, né aveva risposto alla radio. Inoltre i radar avevano scandagliato i cieli invano. Alle 14.30 anche i compagni più ottimisti smisero di sperare.
Non sappiamo se ebbe un guasto, se sbagliò una manovra o se venne abbattuto. Come non sappiamo se credere a Horst Rippert, ex pilota tedesco della Luftwaffe che nel 2008 dichiarò che quel giorno aveva colpito un aereo proprio nell’area e all’orario di transito di Saint-Ex. E in realtà poco importa. Quello che conta è ricordare come per un aviatore degli albori la frequentazione del disastro fosse quotidiana. Precipitare era molto più che una remota possibilità. E nonostante questo, la sete del volo non poteva essere estinta.
Quello del luglio 1944 fu il quarto incidente, per Saint-Ex, contando soltanto quelli potenzialmente mortali e non gli atterraggi di fortuna. Il primo era avvenuto nel 1933 quando, rigettato dalla nascente Air France, aveva trovato impiego come collaudatore di idrovolanti. Il 21 dicembre, alla baia di Saint-Raphaël, con a bordo tre passeggeri – un ufficiale di marina, un ingegnere navale e un meccanico – aveva affondato violentemente la punta dei galleggianti nell’acqua e il mezzo si era capovolto. L’ufficiale era stato proiettato in mare e il meccanico aveva abbandonato la cabina attraverso l’apertura della mitragliatrice. L’ingegnere era stato tratto in salvo da alcuni marinai: provvidenzialmente, visto che non sapeva nuotare. Saint-Ex era bloccato con i polmoni che si riempivano d’acqua. Sentiva la vita andarsene. Poi, proprio all’ultimo, era stato salvato anche lui.
Il secondo incidente era stato ancora più clamoroso. Il 29 dicembre 1935 Saint-Ex era decollato con il meccanico André Prévot per tentare il record di velocità Parigi-Saigon: c’era in palio una grossa cifra e ne aveva bisogno per ripianare i debiti. Ingannati dal vento in quota, dalle nuvole, dal buio e dall’assenza di strumenti affidabili, i due avevano spanciato nel Sahara. Dispersi, senza radio (non l’avevano per essere più leggeri), riuscirono a sopravvivere quattro notti e quattro giorni praticamente senz’acqua né cibo, prima di essere salvati ormai preda di allucinazioni, e di nuovo in fin di vita, da alcuni beduini: Saint-Ex ne avrebbe tratto la cornice per Il Piccolo Principe, che ha per protagonista proprio un aviatore in panne nel Sahara. Infine, nel febbraio 1938, nel tentativo di stabilire il record nella tratta New York-Terra del Fuoco lo scrittore rimase ferito gravemente cadendo in Guatemala.
L’abbiamo detto: per quei piloti il disastro era consuetudine. Se si sopravviveva all’impatto, ci si poteva trovare in condizioni estreme, com’era accaduto all’amico Henri Guillaumet nel giugno 1930 sulle Ande per una tempesta di neve. Saint-Ex ne scrisse in pagine memorabili di Terra degli uomini: «Ti bastava chiudere gli occhi per far scendere la pace nel mondo. Per cancellare dal mondo le rocce, i ghiacci e le nevi. Appena chiuse quelle palpebre miracolose, non c’erano più colpi, né cadute, né strappi muscolari, né gelo ustionante, né quel peso della vita da trascinare quando si va avanti come un bue, e la vita diventa più pensate di un carro. (…) La tua coscienza a poco a poco abbandonava le remote regioni di quel corpo che, animale fino ad allora ricolmo di sofferenze, condivideva già l’indifferenza del marmo». Guillaumet però non si era lasciato vincere, aveva camminato per giorni nel ghiaccio e si era salvato. «Ma cosa restava di te, Guillaumet? Sì, ti abbiamo ritrovato, ma calcinato, ma incartapecorito, ma rinsecchito come una vecchia». Eppure aveva 28 anni soltanto.
In Saint-Ex volo e scrittura si alimentarono a vicenda, offrendo spazi di solitudine e insieme di meditazione esistenziale. Nel dilemma pirandelliano tra vivere e scrivere, il francese non volle rinunciare a nulla.