Domenicale, 11 agosto 2024
I miti dello zodiaco che vegliano su di noi. Meraviglie celesti. I Mesopotamici lo crearono, ma furono i Greci a proiettare nel cielo i loro miti, che da allora restano lassù, come se il firmamento fosse un intero libro di storie, un affresco popolato di eroi e mostri
In una limpida notte di gennaio – si era nel 1610 – Galileo Galilei puntò il suo cannocchiale, poco più di un giocattolo, verso Giove, e osservò alcuni corpi celesti mai visti prima che brillavano vicino al grande pianeta; scoprì presto che non erano stelle, ma satelliti, ai quali in seguito vennero attribuiti nomi mitologici, gli stessi che anche oggi sono in uso: quattro amanti di Giove (o meglio, Zeus), la fanciulla Io poi trasformata in giovenca; Europa, che il dio in forma di toro portò sulla groppa oltre il mare sino a Creta; Ganimede, il giovinetto rapito e portato in cielo per fare da coppiere al banchetto divino, e Callisto che poi divenne l’Orsa Maggiore.
Fu quella la prima occasione in cui il cielo fu scrutato con uno strumento prodotto dall’uomo e non con occhi umani, come era avvenuto dall’alba dell’umanità. A chi capita oggi di alzare gli occhi verso il cielo e contemplare il manto stellato sopra le nostre teste? Per farlo occorre uscire dalle nostre città e cercare spazi vuoti, senza l’inquinamento luminoso che rende nebuloso e coperto il cielo anche nelle notti più limpide. Per una persona comune l’orientamento, soprattutto nelle città, è sostanzialmente orizzontale. Frammenti di cielo, strappati ogni tanto ai cornicioni delle case e all’illuminazione a giorno, ricordano che in alto c’è un altro universo, anzi l’Universo di cui noi siamo un irrilevante corpuscolo. Oggi il nostro mondo è, da ogni punto di vista, un mondo senza, o con poco, cielo. Eppure l’umanità per milioni di anni ha alzato lo sguardo verso il cielo e ha cercato di rappresentarlo; il più antico caso di disegno stellare è quello dipinto nella grotta di Lascaux, circa 17000 anni fa, dove compare nitidamente una raffigurazione della costellazione della Pleiadi, sette puntini accostati tra loro, le stelle che appaiono alla fine della primavera e tramontano all’inizio dell’autunno, alle nostre latitudini. Pleiadi, ovviamente, le chiamarono i Greci e su loro raccontavano un mito: erano sette sorelle bellissime che danzavano libere per le pianure; le notò il selvaggio cacciatore Orione, un bruto che sterminava animali, si ubriacava, stuprava. Naturalmente, le ragazze fuggirono, ma Orione le inseguì. Quando già stava per ghermirle, gli dei le salvarono portandole in cielo: e lì danzano per l’eternità, irraggiungibili dalla cattiveria umana. E Orione? Anche lui è in cielo, da tutt’altra parte, e per un altro motivo. Di questo selvaggio s’innamorò Artemide, la dea cacciatrice, e già meditava di sposarlo rinunciando alla verginità, quando suo fratello Apollo, per evitarle quest’onta, le indicò un giorno un puntolino sul mare, lontanissimo. Era Orione che stava nuotando. «Sono sicuro che tu non sarai capace di centrare quel relitto alla deriva sul mare, lontano». Punta sul vivo, Artemide incoccò la freccia e passò da parte a parte la testa di Orione. Poi, addolorata, decise di portarlo tra le stelle e ne fece una costellazione. Le costellazioni accompagnarono i Greci sin dalle epoche più antiche, e di lì giungono sino a noi dato che l’astronomia latina ricalca in tutto e per tutto quella greca, e il Medioevo latino ricalcò quello che veniva da Roma. E così possiamo risalire molto indietro. Mentre Ulisse sta navigando verso Itaca sopra la zattera costruita nell’isola di Calipso, portato dalla brezza notturna senza che mai il sonno gli cada sulle palpebre, i suoi occhi cercano nel cielo stellato segni sicuri. A guidarlo sono le Pleiadi, Boote e «l’Orsa che chiamano anche Carro e si volge su sé stessa e spia sospettosa Orione, ed è la sola costellazione che non si bagna mai nelle acque d’Oceano». Il navigante orienta la rotta dall’isola di Calipso verso Itaca tenendo l’Orsa Maggiore sempre sulla sinistra, cioè verso nord est, dato che in origine i Greci (a differenza dei Fenici) individuavano il nord sull’Orsa Maggiore anziché sulla Stella Polare. Anche nella Beozia dell’VIII secolo a.C., su una gente contadina che da tempi immemorabili orientava i lavori agricoli coi segni celesti, splendeva un cielo capace di dirigere le opere umane. I momenti dell’anno, il ciclo dei lavori nei campi e della navigazione, erano ritmati sulla base del calendario astrale: «Quando le Pleiadi, figlie di Atlante, compaiono nel cielo (dice il rapsodo Esiodo) inizia a mietere, quando tramontano ad arare». Non è solo la meravigliosa e silenziosa bellezza di un cielo stellato che riempiva il cuore di gioia e stupore, ma il messaggio che questo ci lancia. Anno dopo anno le costellazioni ci aspettano in cielo, in punti esatti, e scandiscono il tempo infinito dell’universo davanti all’effimera vita degli uomini. Le nostre vite si dissolvono ma la costellazione sotto cui siamo nati resta là, ad attendere altri esseri umani. Creare costellazioni fu un modo per ordinare l’apparente caos dell’etere: i Mesopotamici crearono lo zodiaco, ma i Greci proiettarono nel cielo i loro miti, che da allora restano fra le stelle, come se il cielo fosse un intero libro di storie, un affresco popolato di eroi e mostri. Lì in alto l’immaginazione dei Greci dipinse un immenso affresco di creature rese eterne nel momento in cui il destino le aveva cancellate dall’esistenza con la morte, perché nel momento della fine una mano divina trasformò il loro corpo umano in un corpo astrale. Così in cielo troveremo ad aspettarci la Corona che Dioniso donò ad Arianna, il saggio Chirone maestro di eroi, il cavallo Pegaso, il folle volo di Fetonte, il dragone che custodiva le mele d’oro e tante altre storie.