Domenicale, 11 agosto 2024
Così Newton ci spiegò ciò che accade in terra e in cielo
I Philosophiae naturalis principia mathematica furono pubblicati a Londra agli inizi di luglio del 1687. Erano il risultato di due anni e mezzo di intenso lavoro nel chiuso della sua stanza al Trinity College di Cambridge, in una solitudine nevrotica alleviata soltanto dalla creatività scientifica e dall’entusiasmo per le scoperte. A parte le lezioni che continuò a tenere ai suoi studenti, Newton non si concesse nessun’altra distrazione, riducendo ancor di più i già sporadici contatti con il mondo esterno. La sua vita fu completamente assorbita dalla ricerca, con la mente dominata, in modo quasi ossessivo, da dati astronomici, verifiche sperimentali, estenuanti calcoli matematici e problemi che sembravano non dargli tregua.
L’opera destinata a cambiare il corso della scienza occidentale ebbe una modesta tiratura di poche centinaia di copie. A quanto pare, nessuno pensava di ottenere notevoli ricavi da un libro di più di cinquecento fitte pagine in latino, infarcite inoltre di complesse dimostrazioni geometriche in grado di scoraggiare chiunque non avesse le competenze necessarie per comprenderle. Anche la Royal Society, di cui Newton era fellow dal 1672, si guardò bene dal finanziarlo: si limitò a dare un consenso formale, come faceva di solito con i libri che uscivano sotto la sua egida. Il 5 luglio 1686 il presidente Samuel Pepys firmò l’imprimatur – quasi fosse compito della Royal Society sottoporre a censura l’opera – e l’anno dopo i Principia apparvero con un frontespizio dove spiccava l’autorizzazione della più prestigiosa istituzione scientifica inglese.
Gli argomenti affrontati nei Principia non si prestavano certo a un’agevole presentazione. Nondimeno, Newton faceva poche concessioni ai suoi lettori. Aveva dato all’opera una rigorosa e complessa struttura deduttiva, scandita da proposizioni, teoremi, corollari e lemmi che richiedevano competenze matematiche di alto livello. Come se non bastasse, aveva aggiunto una serie di proposizioni e di teoremi che non erano indispensabili per comprendere il suo trattato e che avrebbe quindi potuto benissimo risparmiare ai lettori. L’impatto di questo implacabile andamento deduttivo era alleggerito soltanto da qualche occasionale scolio filosofico che consentiva qua e là di prendere un po’ di fiato.
Newton ripagava però la fatica di seguire il filo dei suoi ragionamenti con risultati mai raggiunti prima: i Principia portavano a compimento la rivoluzione scientifica avviata da Copernico, Keplero e Galileo, rappresentandone il culmine e la sintesi più coerente. In un quadro unitario, che coniugava osservazioni, esperimenti e dimostrazioni matematiche, Newton delineava una nuova immagine dell’universo e delle sue leggi che sarebbe rimasta immutata per più di due secoli, fino cioè alla teoria della relatività di Einstein.
Benché Newton avesse inizialmente concepito i Principia come un trattato composto da due libri, l’ultima versione che consegnò per la stampa ne conteneva tre. Ed erano così suddivisi: il primo e il secondo si occupavano, a un livello di mera astrazione matematica, del moto dei corpi, rispettivamente nei mezzi privi di resistenza e in quelli resistenti come l’acqua e i liquidi di diversa densità; il terzo esponeva, sulla base delle costruzioni matematiche stabilite e dimostrate nel primo libro, il «sistema del mondo».
Era dunque nel terzo libro che si trovava la prova più convincente dell’efficacia della matematica nel campo della filosofia naturale. Newton vi enunciava la legge di gravitazione universale, indubbiamente la scoperta più celebre dei Principia: «La gravità esiste in tutti i corpi ed è proporzionale alla quantità di materia contenuta in ciascuno di essi»
La caduta dei gravi sulla Terra, il moto dei satelliti intorno ai pianeti, così come il moto dei pianeti e delle comete intorno al Sole sono tutti elementi che indicano che l’attrazione è una caratteristica pervasiva della materia ed è inversamente proporzionale al quadrato della distanza. Insomma, un’unica legge, semplice ed elegante, che spiega contemporaneamente ciò che accade sulla Terra e in cielo. Per la prima volta, con il suo nuovo «sistema del mondo» Newton sanciva l’unificazione dei fenomeni celesti e terrestri, demolendo definitivamente il dogma tradizionale di una differenza ontologica tra mondo celeste e mondo terrestre, tra astronomia e meccanica.
Il sistema del mondo che emergeva dai Principia era un universo matematico, il cui complesso funzionamento sembrava governato soltanto da leggi ben precise, che avevano la loro suprema sintesi in quella della gravitazione universale. Newton non faceva alcun esplicito riferimento alla creazione dell’universo da parte di una divinità. Nella prima edizione dell’opera, l’unico accenno a Dio si trovava, quasi nascosto, in un corollario del terzo libro, dove si affermava: «Dio collocò (…) i pianeti a distanze diverse dal Sole, in modo tale che ognuno di essi potesse, in base al suo grado di densità, ricevere una maggiore o minore quantità di calore dal Sole». Tutto qui.
A partire dalla seconda edizione del 1713, però, Newton concluderà i Principia con uno Scolio Generale in cui attribuisce la struttura e l’ordine dell’universo al disegno e al dominio di un «ente intelligente e potente», ossia di Dio. Lo Scolio Generale è il principale manifesto della teologia di Newton, quanto meno tra le opere scientifiche da lui pubblicate, e costituisce una sorta di compendio delle riflessioni religiose, metafisiche e metodologiche elaborate durante la sua vita e affidate a manoscritti che sarebbero rimasti inediti. Newton aveva affrontato alcuni di questi argomenti, soprattutto quello del disegno divino, nell’intenso carteggio che ebbe con Richard Bentley tra il dicembre del 1692 e il febbraio del 1693. Bentley, un teologo e un filologo classico di fama europea, era stato il primo a fare un uso apologetico del sistema del mondo esposto nei Principia per dimostrare che l’universo, con il suo «ordine e la sua bellezza», era il prodotto di «un Agente intelligente e benevolo». Un uso che Newton, senza alcuna esitazione, condivideva in pieno: «quando scrissi il mio trattato sul nostro sistema, ebbi un occhio particolare per quei principi che potessero aiutare gli uomini riflessivi a credere in una divinità, e nulla può rallegrarmi di più che il mio libro sia considerato utile a tale scopo».
I Principia furono l’opera più importante di Newton. E anche se uscirono con una modesta tiratura di poche centinaia di copie, cambiarono radicalmente il corso dell’intera scienza moderna.
L’articolo in pagina è estratto dal nuovo libro del nostro collaboratore Franco Giudice dal titolo Il mondo in un’altra luce. Saggi newtoniani, appena edito da Carocci (pagg. 232, € 25)