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 2024  agosto 11 Domenica calendario

Tutto quello che c’è sotto al vestito

Max Weber osservava che «i bottoni della divisa indossata dal re di Prussia durante la battaglia di Sadowa sembrano di per sé irrilevanti, ma se al punto di vista della storia militare si sostituisce quello della storia della sartoria, essi saranno più importanti dell’esito stesso di tale battaglia». A cambiare il contesto in cui vengono poggiate le cose, quelle identiche cose acquistano o perdono valore, raccontano molto o niente di chi le usa o le possiede.
Ma il bottone di una divisa o un abito rosso di flanella ricavata da una bandiera, uno dei Vestiti – uccelli di Hitchcock (per cui l’unico consiglio possibile è spalancare l’armadio e farli volare via «come si fa con le gelosie, e le ossessioni indecorose») a chi interessano? Alla letteratura sicuramente, tanto che serve talvolta ribadire la necessità di uno scardinamento nella gerarchia tra le cose.
La filosofa Francesca Rigotti ha spiegato l’urgenza di un bilanciamento tra le sfere alte della filosofia e le pianure del quotidiano e i rischi che comporta una simile scelta. La saggezza delle cose avrebbe, infatti, molto da insegnare e sarebbe utile tendere l’orecchio alla sua voce. «La sfida – scriveva ne Il pensiero delle cose – è quella di far entrare le cose della vita di ogni giorno nell’ambito dello stato di saggezza che dovrebbe essere il luogo naturale del filosofo, in quello stesso territorio cioè dal quale furono a lungo tenute fuori». In letteratura, del resto, la metafora più pregnante è spesso quella che sfrutta oggetti a noi tanto vicini da farci stupire di non averli pensati prima in quel modo, a comunicarci quel particolare messaggio. Gli abiti, per esempio, sono in grado di raccontare talvolta ciò che non riescono i concetti astratti.
È accaduto a Paola Masino, scrittrice di peso del nostro Novecento, seppur poco letta come lei stessa lamentava, la quale consegnò alla memoria degli abiti i ricordi più intimi della sua vita. Quella di Album di vestiti (scritto a mano su vecchi quaderni di scuola tra il 1958 e il 1963) è l’autobiografia di una persona assai schiva che cerca nell’abbigliamento una giustificazione – scrivo di me, insomma, all’unico fine di dire di vestiti, cappelli, uniformi etc. Salvo poi cadere nella giusta tentazione di raccontarsi, per il puro gusto di parlare dell’infanzia, dell’adolescenza, dell’amore quando arriva, della cattiveria (propria e altrui) quando si manifesta, e farne parola – per poi subito riprendersi, quasi sgridarsi, e riportarsi all’ordine con imperativi diretti («Di abiti devi parlare, Paola! Di vestiario e basta!» pare dirsi). Sfogliando questo Album di vestiti (Elliot) come un diario, si segue la crescita della bambina, poi della donna dedita alle lettere e ai fiori, e concentrata nello sforzo pieno di un amore soltanto, quello con Massimo Bontempelli, cui dedica gran parte dell’esistenza e in nome del quale rinuncia a parti importanti della sua persona. Tanto sono straordinarie l’interiorità della scrittrice e la schiettezza con cui ammette qui e là la propria meschinità, così è stupefacente – perlomeno all’occhio contemporaneo – la trasformazione delle stoffe che, in quegli anni, restavano un’entità mai definitiva, che cambiava forma a seconda della necessità.
Come l’abito da sposa della mamma che perdeva pezzi a vantaggio degli abiti delle figlie o come una bandiera che divenne un famoso abito rosso, indossato da Paola bambina quando insultò a teatro Puccini – e apprese in quell’occasione dal padre che «non sempre è opportuno ripetere quel che si sente in casa, anche se è la verità. Anzi, soprattutto se è la verità». È una giovane Paola, giunta a Parigi per lavorare alla redazione dell’Europe Nouvelle e insieme vivere più pienamente l’amore irregolare con Bontempelli (sposato e di trent’anni più grande di lei), che si trova a donare un vestito di seta rosso corallo a piccoli punti bianchi a una collega francese che tanto lo ammira. È così che la scrittrice scopre che «la generosità è il più egoistico e superbo dei piaceri, la via più spiccia, e forse più volgare, per sentirsi migliori: un modo raffinatissimo di peccare e di apparire superiore e mondi di peccato agli occhi del mondo».
Masino scriveva su riviste di moda, mostrando un’attenzione che ha a lungo toccato il femminile in quegli anni. Testimonianza ne è La moda secondo Vanessa (Sellerio), dietro il cui nome si è celata dal 1940 al 1960 Gianna Manzini, altra grande narratrice del nostro patrimonio letterario del Novecento e che si prepara a tornare tra il 2024 e il 2025 in libreria in nuove edizioni per Mondadori. Sì, per raccontare la moda, Manzini cambia nome, la sua penna è dapprima Pamela sulla rivista di moda Oggi e successivamente Vanessa, quando firma articoli a tema per Fiera Letteraria. Non è solo forma, ma una forma che racconta la sostanza di un femminile che cambia. L’abito interroga infatti la donna moderna e nelle recensioni di Gianna / Vanessa emerge il profilo di figure da ammirare, di donne più consapevoli di sé stesse che guidano il Made in Italy, vestono altre donne e migliorano costantemente la consapevolezza di sé, e insieme modellano a velocità strabilianti un’industria nuovissima.
La moda, spiegava Georg Simmel, ha la straordinaria capacità non solo di mutare forma continuamente, ma anche di imporre di volta in volta utilità e inutilità secondo una regola che segue le instabili regole di casualità, più di quelle che determinano il funzionamento razionale della società. «Mentre in generale il nostro abito è praticamente adatto alle nostre necessità, nelle decisioni della moda per dargli forma non c’è traccia di utilità pratica: come quando stabilisce se si debbono portare gonne larghe o strette, capelli lunghi o corti, cravatte nere o a colori… proprio la casualità con la quale una volta impone l’utile, un’altra l’assurdo, una terza ciò che è del tutto indifferente dal punto di vista pratico e da quello estetico, dimostra la sua completa noncuranza delle norme oggettive della vita e rinvia ad altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali che sole rimangono». L’abito parla, imbastisce vere e proprie conversazioni con chi lo indossa e con chi lo guarda. Un piccolo capolavoro del guardaroba loquace è Atlante degli abiti smessi (Einaudi) di Elvira Seminara in cui è ai vestiti lasciati in consegna da una madre a una figlia che si affida l’intero racconto. Ogni pezzo dell’inventario è insieme reale e fantastico, esteriore e interiore («vestiti dell’aurora», «vestiti di meticolosa tristezza», «vestiti- aquiloni», «vestiti che non puoi più toglierti di dosso, si sono incollati alla pelle, e se provi a sfilarli ti scortichi, tiri via anche gli organi, il fegato, la milza»). Letteratura e moda, insomma, non sono ambiti estranei. A chi sottovaluta gli abiti direi, senza andare molto lontano nel tempo e nella geografia: leggete Masino, Manzini, Seminara. Da un solo vestito può nascere una intera storia. Talvolta persino un’autobiografia.
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