il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2024
“A froci…”: eravamo io e Flaiano. Insulti, risate e la Rai
ENRICO VAIME (1936-2021) – Vaime &C: Zavattini pittore e De Sica appisolato
Torniamo alla mia attività autorale a tempo pieno. Gli impegni erano tanti. In quel periodo ebbi la fortuna di conoscere e lavorare con alcuni dei miei miti, maestri indiscussi. Flaiano, per esempio, autore e soprattutto persona eccezionale. Lavorammo insieme per la tv. Fu straordinariamente divertente. Con Flaiano c’era un affiatamento come tra coetanei. Mi metteva a mio agio, mi trattava come un compagno di scuola.
Quando comprai una 2300 S coupé carrozzata Ghia rossa (avevo fatto il passo più lungo della cambiale), corsi da lui per fargliela vedere. Lui la guardò ammirato. Poi guardò me e disse: “Bella. Quando la devi restituire?”. Nel giardinetto dello studio di Flaiano in via Montecristo compiamo un rito nel quale nessuno dei due crede. Sistemiamo all’aperto un tavolinetto, la macchina per scrivere, due sedie… E cominciamo a parlare. D’altro, naturalmente. A Roma non c’è nessuno, solo un gruppo di ragazzini della Nomentana talmente poveri da non essere in gita con le famiglie su qualche gonfia 600. Piano piano si avvicinano alla recinzione del giardinetto e ci guardano rimanendo aggrappati alla rete come pipistrelli. Sembriamo loro assurdi, è evidente: cosa ci fanno due signori a Ferragosto davanti a un tavolo da lavoro? Non ci vedono normali e covano la loro diffidenza per un po’, fino a quando io non inizio a battere sull’Olivetti degli appunti da sviluppare. Questo convince del tutto i nostri piccoli giudici: è arrivata la conferma della nostra diversità che però non sanno definire con precisione. Dopo aver parlottato tra loro ci urlano finalmente il verdetto: “A froci!!!”. Mi viene da ridere. Flaiano commenta: “M’aspettavo di peggio”.
Con Cesare Zavattini partecipai alla sceneggiatura di un film per la Loren (che non si fece. O meglio non si realizzò il nostro copione. Anche la regia cambiò). Fu interessante vivere un’esperienza professionale vicino a quel personaggio affascinante nelle sue geniali ingenuità entusiastiche. Un trascinatore. Per concentrarci meglio, suggerì di ritirarci in qualche posto isolato. Io scelsi un albergo-ristorante-night di Marino, di fronte alla villa del committente, col quale potevamo conferire quindi con facilità. Quel posto di charme, un po’ ambiguo se vogliamo, lo scelsi io: lo conoscevo. C’ero stato più volte con una mia fidanzata in weekend sentimentali.
Ogni tanto si scendeva, con Zavattini e gli altri sceneggiatori, nella villa di Ponti. Ci sistemavamo in un salotto. E sentivamo al piano di sopra il ticchettare dei tacchi della Loren. Che una sera comparve nel vano dell’ingresso. Fece un ampio gesto di saluto. E scomparve. A noi restava la possibilità di dialogare col marito e col mostro sacro Vittorio De Sica. Che, si capì, non aveva nessuna voglia di fare quel film (e riuscì a non farlo). Si sistemava in un angolo di divano, si prendeva il setto nasale fra le dita e rimaneva immobile a occhi chiusi. Dormiva, scoprii. Senza farsi accorgere. Un genio anche in quello.
A Roma continuai la frequentazione di Zavattini. Era il periodo in cui dipingeva. Soprattutto cocomeri a fette. E continuava la sua collezione di piccoli ritratti di grandi pittori. Si stufò e mi chiese se conoscessi qualcuno interessato a rilevarla. Gli presentai Anna, una mercante d’arte molto bella. Quando la vide, non mi chiese referenze. Domandò solo: “Chi se la scopa?”. Ma nelle frequentazioni professionali non si era sempre così fortunati. Raramente si incontravano in Viale Mazzini, nostro punto di riferimento quasi abituale, personaggi di livello in cerca di lavoro. Quel lavoro invidiato da molti che ipotizzavano guadagni da favola. Noi venivamo pagati, sostenevo, un tanto a umiliazione. Soprattutto per accantonare la nostra cultura umanistica. C’era chi non l’aveva e il risarcimento lo intascava lo stesso…
Il cavallo dello scultore Messina fu sistemato davanti alla sede della Rai molti anni fa dopo che, dicono le leggende, ci si ricordò della sua ingombrante esistenza, rimossa dalla mente dei nuovi dirigenti che avevano sostituito i vecchi committenti in vena di simbologie ippiche. Il cavallo di bronzo è sistemato (ma sembra appoggiato provvisoriamente) troppo vicino al palazzo, stretto fra la cancellata che quasi gli lambisce le chiappe e le vetrate che riflettono le sue froge indispettite per lo scivolone: sì, perché Messina ha colto l’animale durante una perdita d’equilibrio che forse poteva essergli fatale.
D’altronde tutto quello che avviene in quel tratto di Viale Mazzini è segnato da strane fatalità e imprevisti al limite del grottesco: durante la costruzione dello stabile direzionale, scavando per le fondamenta, trovarono il metano come se si fosse in Val Padana invece che in zona Prati. E così l’edificio subì un ritardo di consegna assai superiore al solito ritardo di consegna di tutti gli edifici pubblici. Ma questa è un’altra storia, anche se parallela a quella del cavallo che sta per sfracellarsi al suolo vista la posizione degli arti inferiori destinati a cedere, e che fu collocato con la testa verso gli uffici per via della celebre battuta d’un cinico dirigente che disse di mettere l’animale spalle alla strada, “coi coglioni verso l’esterno che all’interno ne abbiamo anche troppi”. L’apparato genitale della simbolica bestia rampante è vistoso, come possono controllare quanti seguono sulla stampa specializzata i lanci dei programmi Rai: i protagonisti si fanno immortalare all’ombra della maschia opera del Messina come a confermare che lavorano per l’azienda di Stato, non per una Telesgurgola qualsiasi e ridono a volte indicando il povero quadrupede che non è riuscito a cadere. L’occhio di molti, chissà perché, cade lì, allo scultoreo pacco genitale che spesso si situa, nelle foto, in ambigue e incombenti collocazioni annullando le prospettive.