il Fatto Quotidiano, 10 agosto 2024
Giornalismo d’inchiesta. A 50 anni dal Watergate
Cinquanta anni fa il presidente Usa Richard Nixon dovette dimettersi per lo scandalo Watergate rivelato dal quotidiano Washington Post con una inchiesta durata oltre due anni. Da uno scasso nell’edificio Watergate nella Capitale Usa emerse lo spionaggio sul Partito Democratico con responsabilità del capo della Casa Bianca repubblicano.Quell’inchiesta dimostrò che un giornale poteva far saltare perfino il governante più potente del mondo con il “gioco di squadra” di un caporedattore (Barry Sussman), due giovani reporter (Carl Bernstein e Bob Woodward), altri deskisti (Howard Simons e Harry Rosenfeld) e il decisivo sostegno del direttore (Ben Bradlee) e dell’editrice (Katherine Graham). Oggi ci ricorda quanto il giornalismo di controllo sul potere sia essenziale per la credibilità dei media e delle democrazie rispettose del diritto dei cittadini a essere informati. E che, dopo il trauma Nixon, poteri politici, economici e lobbistici hanno boicottato le inchieste alla Watergate in ogni modo, fino a comprarsi innumerevoli media – direttamente o indirettamente – per eliminarli.
Anomali editori hanno causato perdite di copie ai loro giornali scegliendo direttori servili per far censurare e deviare l’informazione secondo i diktat della proprietà e dei potenti di riferimento. Tanti reporter sono stati ridotti in precari sottopagati e bloccati davanti ai computer. I rari giornalisti investigativi hanno trovato spazio in poche testate, a volte con l’aiuto di fondazioni e consorzi esterni. In Paesi del Terzo mondo fare un’inchiesta giornalistica può costare la vita. Ma anche Stati Uniti e Regno Unito hanno fatto incarcerare per anni Julien Assange di Wikileaks (senza processo) per aver rivelato crimini di guerra Usa.
Disinformazione e confusione dilagano in Internet, che diffonde infinite notizie false o distorte, e con tv che mischiano chiacchiere e varietà con l’informazione. Masse di cittadini non votano anche perché non ben informate su come vengono depredate da intrecci perversi tra governanti, partiti, lobby palesi e occulte, affaristi e faccendieri.
Negli States il Washington Post è stato comprato da Jeff Bezos della multinazionale Amazon. Tanti altri giornali hanno scontato pesanti tagli o hanno chiuso, lasciando vaste aree senza informazione attendibile. Il New York Times resta simbolo super-redditizio del controllo sui potenti e si è impegnato per far ritirare dalla corsa a un secondo mandato il presidente Usa Joe Biden per problemi senili. Qualche giornale abbastanza autorevole sopravvive in Francia (Le Monde), Regno Unito (Guardian) o Germania (Frankfurter Allgemeine Zeitung). L’Italia è finita in basso nelle classifiche sulla libertà di stampa. Ricchi editori – spesso con interessi primari in altri settori – affrontano le maxi perdite di copie facendosi pagare in vari modi da governo, Unione europea o altre entità pubbliche, cioè da poteri che i loro media dovrebbero controllare. Alle inchieste alla Watergate preferiscono “buona stampa” per notabili e acquirenti di pubblicità.
I due principali quotidiani, Corriere della Sera e Repubblica, pur disponendo di centinaia di giornalisti, sono crollati da circa 700 e 600 mila copie alle poco più di 200 e 100 mila individuali rilevate da Prima/Ads. Il Corriere dava l’esempio con inchieste scomode perfino sulla sua potente proprietà (Fiat, Mediobanca e altri big del capitalismo italiano). Da tempo pubblica molti articoli benevoli sul subentrato editore Urbano Cairo e su inserzionisti paganti. Repubblica degli Elkann/Agnelli (ex Fiat ora Stellantis e molto altro), per farsi pagare articoli dall’Ue, si è addirittura associata in “partnership” con Europarlamento e Commissione europea. Le tv pubbliche Rai vengono lottizzate dai partiti. Quelle Mediaset dello scomparso ex premier Silvio Berlusconi sono state ereditate – con i conflitti d’interessi – dai figli, influenti finanziatori del partito paterno.
Direzioni di testate, “mezzibusti” delle tv e “firme” note hanno incassato dal governo Draghi il salvataggio delle loro “pensioni d’oro” nel collasso dell’ente previdenziale privato di categoria (Inpgi 1), che accoglieva come “giornalisti” anche soggetti a libro paga di imprese/banche e politici di mestiere come la premier Giorgia Meloni e i suoi vice Matteo Salvini e Antonio Tajani. Così tra i principali giornali solo il Fatto, che non prende finanziamenti pubblici, ha informato ampiamente sulle vergognose elargizioni di denaro dei contribuenti a ricchi editori e ai privilegiati dell’Inpgi 1 o sulla scandalosa stangata a milioni di italiani con la fine del mercato tutelato di “gas & luce”, imposta da Meloni & C. a vantaggio della lobby energetica, che compra tanta pubblicità su media graditi.