Corriere della Sera, 10 agosto 2024
Gide e Valéry, lettere dal ’900
Per sapere che cosa André Gide (1869-1951) pensasse effettivamente dell’amico fraterno Paul Valéry (1871-1945) basta prendere il monumentale Diario ( Journal nell’originale) e consultarlo là dove Gide si riferisce agli incontri con il sodale. Ecco ad esempio parte dell’annotazione datata 9 febbraio 1907 (i due si erano conosciuti nel 1890): «Valéry non saprà mai tutta l’amicizia che devo portargli per riuscire ad ascoltare fino in fondo la sua conversazione. Ne esco malconcio. Ieri ho passato con lui quasi tre ore. Dopodiché non c’era più nulla che reggesse nel mio spirito. (…) La conversazione di Valéry mi pone di fronte a una spaventosa alternativa: o trovare assurdo quel che dice lui o trovare assurdo quel che faccio io». Anche altrove nel suo Journal Gide lascia intendere di sentirsi minacciato dall’ingombrante statura intellettuale dell’amico. Così scrive il 28 luglio 1929: «Più intelligente, affascinante, affettuoso che mai. Eppure quando lo lascio mi sento abbastanza depresso, come peraltro dopo tutte le altre conversazioni con Valéry. (…) Gioca la propria vita come una partita a scacchi che occorre vincere, o come scrive le sue poesie, collocandovi la parola esatta, come si muove una pedina proprio nel punto esatto in cui va spostata. E l’ha condotta così bene che la mia, al confronto, mi sembra solo una triste sequenza di topiche» (traduzione di Sergio Arecco per Bompiani). Gide insomma non solo si sente incompreso, come dice chiaramente altrove, ma dà l’impressione di provare una sorta di mal celato senso di inferiorità nei confronti di Valéry.
Alla luce di queste osservazioni problematiche e conflittuali, affidate alle note autobiografiche di Gide, si legge con ammirazione anche maggiore il corposo carteggio tra i due, tenuto in piedi per un lungo arco di anni (1890-1942) da delicati equilibri e forse anche da qualche convenzione epistolare (Paul Valéry – André Gide, Corrispondenza, 2 volumi, I [1890-1899], II [1900-1942], curata con diligenza da Vito Sorbello a partire dall’edizione francese, sia pure con qualche errore tipografico di troppo, per Aragno). I corrispondenti sono due autori abituati a riflettere su di sé: Gide nella forma più tradizionale del Journal, Valéry in quella dei Cahiers, alla ricerca di un pensiero esatto e affilato su ogni cosa. L’amicizia, mai revocata in dubbio, non fa velo alle differenze: «Credo che non ci siano tipi più differenti tra loro come tra me e te», scrive Valéry il 31 ottobre 1923. E di fronte a una cronaca di Gide sulla «Nouvelle Revue Française» riportante un lapsus dell’amico, Valéry non manca di protestare, a futura memoria si direbbe: «Se tu cedi a degli sconosciuti quello che io confido a te conosciuto, tu esci dalla tua definizione, tu non sei più tu, tu sei turbamento. Io voglio parlarti, ma vedo subito la mano dello scrittore, la pagina del tuo Diario e la nrf con una fascetta rosa» (lettera del 5 febbraio 1929). È perciò notevole che tra due spiriti tanto differentemente orientati abbia retto per decenni, fino quasi alla morte di Valéry e quindi prima dell’assegnazione a Gide del Nobel nel 1947, un filo di ammirazione e di rispetto, più forte delle occasioni di dissenso, pur a volte palesate nel carteggio (ad esempio nel leggersi e nel farsi l’un l’altro le critiche più severe).
Consuetudine e timori
«Se cedi a sconosciuti ciò che ti confido, non sei più tu. Voglio parlarti ma vedo la mano dello scrittore»
Nel dialogo tra i due brilla con riverberi particolarmente vividi la prosa epistolare di Valéry, che sembra sempre intrecciata a quella dei Cahiers , con le sue acuminate riflessioni. La lucidità e il virtuosismo del poeta-prosatore sono a tratti evidenti, come in questo passo della lettera del 25 agosto 1891: «… Solo, il suono vago d’argento che fa l’acqua sulle foglie stanche mi consola… Niente mi consola come questo. L’arte è un giocattolo. La scienza grossolana. L’esoterismo, la più bella delle menzogne. Niente è complicato, lontano, realmente segreto e sottile – tranne questo rumore pallido dell’acqua. L’acqua». Prima della celebre crisi maturata a Genova nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1892, Valéry esprime una tensione estrema: «La scienza mi ha annoiato, la foresta mistica non mi ha condotto a niente, ho visitato la nave e la cattedrale, ho letto i più meravigliosi, Poe, Rimbaud, Mallarmé, analizzato, ahimè, i loro mezzi, e ho incontrato sempre le più belle illusioni, nel loro punto di genesi e creazione. Dove troverò una magia più nuova? Un segreto d’essere e di creare che mi sorprenda?» (10 settembre 1891). Dopo la crisi, mai descritta nelle sue lettere all’amico, Valéry si definisce come un ex scrittore, finché torna alla poesia, dedicando proprio a Gide nel 1917 La jeune Parque . Di costituzione intellettuale diversa, i due amici si ritrovano nel culto per Rimbaud e nell’ammirazione per Mallarmé. Gide ama leggere i filosofi (da Leibniz a Schopenhauer a Nietzsche), Valéry anche opere scientifiche, cercando nel verso quasi la precipitazione di un’espressione algebrica, come annota il 15 giugno 1891: «La metrica è un’algebra: cioè a dire una scienza delle variazioni di un ritmo fisso secondo certi valori dati ai segni che lo compongono». E Gide, che in certe sue opere inframmette alla prosa composizioni in versi, non manca di applicarsi al problema della forma metrica della poesia (28 agosto 1891): «Ogni notte, io faccio senza gioia pochi versi deplorevoli, dei versi liberi ahimè, e che cerco di credere ordinati secondo qualche metrica nuova, perché il verso libero è assurdo; – ma l’alessandrino ancora di più».
La crisi del poeta
«Dove troverò una magia più nuova? Un segreto d’essere e di creare che mi sorprenda?»
Infine, alieni del tutto dal parlare di Dio (Valéry evoca semmai l’emozione estetica della liturgia), i due amici discutono dei confini della letteratura, di ciò che la separa dall’esistenza e insieme ve la congiunge: problema vivissimo per un Gide sempre proteso a confessarsi nell’opera (si pensi appena a Se il grano non muore ). Il rapporto tra vita e letteratura, insomma, appare come l’incognita di una difficile equazione. Perché una cosa è certa per i due, come Valéry dice sul finire del Cimetière marin, in una frase amata e citata anche da Gide: «il faut tenter de vivre!».