Corriere della Sera, 9 agosto 2024
Intervista a Michele Placido
Michele Placido si racconta. E così è se vi pare.
Non si parla mai della sua adolescenza in Puglia.
«Sono nato ad Ascoli Satriano, provincia di Foggia. Papà era geometra. Avevamo una bella casa, era la piccola borghesia di paese. Otto fratelli, uno non c’è più. Io non riuscivo a stare a scuola e a concentrarmi, la mia testa volava. Avevo uno zio sacerdote, volevo diventare missionario come lui, perché mi dava l’idea che così potevo girare il mondo. Dai 9 ai 13 anni mi misero in collegio a Scifelli, vicino a Frosinone. Lì conobbi Antonietta, che faceva la suora come tante ragazzine che venivano dalla povertà. Dividevo con lei i pacchi di cibo che mi mandavano i miei. Ci fu una storiellina come si può avere a quell’età e mi cacciarono. Avevo una formazione religiosa in cui credevo e non credevo. Ero confuso, seguivo le processioni a Pasqua e mi commuovevo. Quello è già teatro. Dovevo diventare prete».
Invece diventò un grande seduttore. Su di lei e Ornella Muti s’è detto tutto e il contrario di tutto.
«Ornella era bellissima, corteggiatissima. Giravamo Romanzo popolare di Monicelli, eravamo segretamente innamorati ma non potevamo dirlo sul set. Nemmeno ce lo dicevamo tra noi. Una sera nell’ascensore del residence dove abitavamo provai a darle un bacio, lei mi rifilò una sberla».
Sua figlia Violante era gelosa di lei?
«Beh sì. Ero un bell’uomo. Dopo una premiazione c’era una festa, mi misi a ballare e con la coda dell’occhio la vidi piangere. Avrà avuto 10 anni. Ma a 16 già andò via di casa con un fidanzato».
Con la sua seconda moglie, Federica Vincenti, ci sono 38 anni di differenza. Li sentite?
«Certo, è inevitabile. Mi ha prolungato la giovinezza. È una bellissima storia. Ci siamo fusi, lei non fa niente senza di me e viceversa. La sessualità finisce, come in tutte le coppie. Ci unisce la passione per cinema e teatro. È la donna più importante della mia vita. Al matrimonio a San Nicola Cisternino Al Bano si mise a cantare. L’attore celebre pugliese che sposa la ragazza salentina. La gente era assiepata sui tetti. La conobbi a Parabita, nel Leccese, dopo un mio spettacolo. Il sindaco mi disse che una ragazzina voleva entrare all’Accademia d’arte Drammatica a Roma. Ci riuscì. Io mi godevo la libertà dopo la separazione da Simonetta Stefanelli, lei viveva in un pensionato con altre allieve. Dopo un anno la invitai a casa mia, dove mi vergognavo di riceverla essendo molto disordinato. Cominciò la nostra storia. Federica rimase incinta ma abortì al terzo mese perché in grembo c’era un esserino che non vedeva e non sentiva. Fu terribile, ancora adesso mi commuovo. Nel 2006 abbiamo avuto Gabriele. Andare a comprare le figurine dei calciatori in età così adulta è un’esperienza meravigliosa».
Federica è la protagonista di «Eterno visionario» di cui lei è regista, che andrà alla Festa del cinema di Roma.
«Lei è attrice, canta, suona il pianoforte, ora ha l’ambizione di diventare direttrice d’orchestra. E poi è produttrice. Il film è un racconto intimo e familiare di Pirandello. Valeria Bruni Tedeschi fa Antonietta, passata alla storia come la moglie pazza, lui non voleva lasciarla, furono i figli a obbligarlo a portarla al manicomio. Federica è Marta Abba, la grande attrice, la sua musa, era quella che teneva i conti e Federica nasce ragioniera. Mi sento un po’ come Flaubert: Madame Bovary c’est moi. Tra Pirandello e Marta Abba c’erano 33 anni di differenza, praticamente come noi. È l’autore che più mi ha segnato».
Perché?
«Volevo studiare recitazione, mio padre non poteva mantenermi così entrai in Polizia preparando il sogno di diventare attore di teatro all’Accademia Silvio d’Amico. Divoravo testi nella biblioteca della caserma. Le mie letture erano viste con sospetto. Mi sorpresero con in mano Paese Sera, quotidiano di sinistra, me lo sequestrarono e mi diedero cinque giorni di prigione. In biblioteca provavo a memorizzare L’uomo dal fiore in bocca quando dalla porta socchiusa, nel fondo della sala, un alto grado di polizia concluse il mio monologo. Allora vuoi fare l’attore, esclamò. Mi convocò l’indomani mattina, e disse davanti ad altri ufficiali: abbiamo trovato l’allievo che il 29 settembre, giorno di San Michele Arcangelo, dirà la poesia sul nostro santo protettore. Quell’uomo mi prese a benvolere, preparai con lui il monologo di Pirandello per entrare alla Silvio d’Amico. Dalla quale poi mi cacciarono gli occupanti (eravamo ancora in clima Sessantottino)».
Seconda cacciata.
Sorride: «Sì, dopo quella al collegio. Ma la mia formazione è tutta un’incompiuta. Mio padre mi iscrisse all’Istituto tecnico di Foggia come geometra. Lo mollai dopo il primo anno».
Allora ha la licenza media.
«Esatto. Ma i miei maestri sono stati Strehler e Ronconi, con cui lavorai accanto a Mariangela Melato e Ottavia Piccolo nell’Orlando Furioso».
Lei, ex poliziotto alla storica manifestazione degli studenti a Valle Giulia, è un uomo di sinistra che è andato al primo comizio di Giorgia Meloni premier.
«Volevo ascoltare, capire. Sedetti defilato, in pochi mi videro e nessuno mi intervistò. Tempo fa a una cena a casa mia dissi, però ’sta Meloni, ha preso un partito che era al 5 per cento e... un regista cominciò a gridarmi: fascista! Federica lo cacciò via».
Che cosa pensa, da uomo del Sud, dell’Autonomia differenziata?
«Noi abbiamo sempre sofferto la supremazia del Nord, non ci fidiamo. Ma voglio studiare meglio questa cosa prima di giudicare. Quello che posso dire è che la cultura è sempre stata di sinistra e la destra ora sente questa responsabilità. Gli unici politici che in vita mia ho visto a tutte le prime di teatro sono Fausto Bertinotti e Gianni Letta».
Nanni Moretti direbbe: di’ una cosa di sinistra.
«Lo ricordo ai David di Donatello. Per Romanzo criminale avevo 14 candidature; i premi più ambiti, miglior regista e miglior film, andarono a Nanni Moretti per Il caimano. Gli dissi, ma avrò insegnato anch’io qualcosa se hanno vinto il mio montatore, direttore di fotografia, scenografa... lui si rabbuiò e non mi rispose».
Perché un film su Pirandello?
«Ho l’età giusta e, come dicevo, mi rispecchia. È sulla famiglia di Pirandello, un racconto intimo scritto da un giornalista che lavorò al Corriere della Sera, Matteo Collura, che è di Agrigento come Pirandello, ha l’età mia e l’ho fatto debuttare come sceneggiatore».
Lei si rispecchia in Pirandello anche nella depressione?
«Ne ho sempre sofferto. Come l’ho curata? Andando il sabato e la domenica in analisi a casa di mia madre. Preparava la pasta al forno e le polpette, e tiravamo fuori tutto, ogni confessione. Da quei pranzi uscivo ripulito».
Siamo stati tutti orfani del commissario Cattani.
Sorride: «Cosa posso dire... L’ho fatto uccidere dopo quattro serie. Non potevo restare tutta la vita prigioniero della Piovra, anche se aveva ascolti da Festival di Sanremo. Ci ho messo un mucchio di tempo per trovare la mia nuova strada, anche come regista. Ho esordito a 44 anni con Pummarò, gli emigranti che raccolgono pomodori sfruttati dal caporalato. Lo girai io perché nessuno voleva farlo. Se pensiamo a quello che è successo a quel povero indiano, sono stato profetico».