il Fatto Quotidiano, 9 agosto 2024
Intervista a Stefano Nazzi
«Il delitto perfetto non è mai esistito: ci sono elementi di casualità che non si possono conoscere in anticipo, ma che possono condizionare le circostanze. Sicuramente negli ultimi anni farla franca è diventato pressoché impossibile. A meno che tu non abbia un buon avvocato». Stefano Nazzi è il giornalista italiano che ha reso il true crime il genere più amato sui podcast: nel 2023, il suo Indagini si è piazzato al quarto posto tra quelli più ascoltati. Tra aprile e giugno, il suo lavoro è diventato uno spettacolo teatrale sold out ovunque. E a ottobre riprenderà con altre sei date. Nazzi, perché la cronaca nera attira così tante persone?
«Credo che tutti noi siamo attratti da ciò che ci sembra più lontano e che non capiamo. E così, con l’aiuto del racconto, proviamo a dare un senso a cose che magari non lo hanno o che ci fanno paura. Non solo: conoscere ci fa sentire migliori».
Indagini, quindi, risponde a queste esigenze?
«Non sono un giornalista investigativo, non scopro cose nuove. Anzi, spesso sulle scoperte ho delle perplessità. Ci sono casi che si sono caricati di ipotesi, luoghi comuni, fake news. Ancora oggi mi sento dire che Anna Maria Franzoni era parente della moglie di Romano Prodi… Ecco, io cerco di togliere l’inutile polvere che si è depositata intorno alle storie, trasformandole».
Ed è quella polvere che crea morbosità?
«È un circolo vizioso: è facile dare la colpa ai giornalisti, impegnati ad aggiornare continuamente le notizie ma anche costretti a dare uno sguardo ai social».
Ma un giornalista dovrebbe limitarsi a raccontare i fatti, non a formulare ipotesi.
«Ognuno di noi ha un’opinione, ma un conto è scrivere un editoriale, un conto un articolo di nera. Il problema è che la cronaca stessa è diventata terreno di battaglia politica. Le indagini e i processi sono complessi, non se ne può isolare una parte ed esprimere un giudizio. E soprattutto non è necessario avere un’opinione su tutto».
Chissà perché mi viene in mente il processo sulla strage di Erba, che – anche grazie alla spinta mediatica de Le Iene – è stato sul punto di essere riaperto.
«Le Iene hanno fatto una cosa legittima: sono partite da una tesi e l’hanno sostenuta. Ma nel processo ci sono tanti altri elementi che andrebbero presi in considerazione. Mi chiedo perché la stessa attenzione non venga riservata ad altri casi».
Allora rilancio con il caso di Perugia, sul quale l’opinione pubblica ha un giudizio colpevolista nonostante l’esito processuale.
«Le prove non ci sono – dicono i giudici –, a eccezione di quelle su Rudy Guede, e dunque non si può accertare quello che è successo. La Cassazione, però, parla di inusitata attenzione mediatica che ha portato a un’accelerazione delle indagini. Questo ha contribuito alla convinzione che sia stato fatto un gran casino».
Al contrario, lei sostiene che la più grossa indagine scientifica che sia stata fatta è quella sull’omicidio di Yara Gambirasio.
«Eppure anche in questo caso ci sono gli innocentisti che chiedono la revisione del processo. La verità è che adesso qualsiasi storia viene rivoltata».
Restiamo sulle indagini: è stata l’introduzione dell’esame del Dna a cambiarne il corso?
«Non soltanto: se ci fossero state le telecamere ai tempi del rapimento di Emanuela Orlandi, qualcosa in più sapremmo. Da quando sono arrivate le nuove tecniche scientifiche le forze di polizia giudiziaria hanno fatto passi da gigante. Ed è stato un deterrente: gli omicidi sono diminuiti».
Un altro assassino a cui avremmo dato un nome?
«Il delitto di via Poma: c’erano tracce di sangue ovunque. Se gli investigatori avessero potuto esaminare il Dna (allora la tecnica era embrionale), il caso si sarebbe risolto presto. Certo, c’è sempre l’ipotesi errore umano, ma la scienza non sbaglia».
La scienza però può rimanere muta, se non c’è chi mette insieme i pezzi.
«Quando fu scoperto il Dna sugli slip di Yara, gli inquirenti arrivarono all’individuazione di una persona, il cui Dna però non corrispondeva precisamente. A quel punto, ebbero l’intuizione del “figlio illegittimo”. Le indagini tradizionali continuano a essere fondamentali».
Lo accennava: i processi sono altrettanti complessi.
«C’è il lavoro di avvocati e giudici, e anche qui la bravura conta. Se hai un legale scarso, non vai da nessuna parte».
Il delitto perfetto è di chi se lo può permettere.
«L’ex comandante del Ris, Luciano Garofano, diceva: “Non ci sono delitti perfetti, ci sono indagini perfette”. Per fortuna, grazie alle nuove capacità investigative e alla tecnologia, è tutto molto sotto controllo».
Nelle sue Indagini, ha incontrato il Male assoluto?
«Se c’è qualcosa che gli si avvicina, è Angelo Izzo (uno dei tre autori del massacro del Circeo, a cui Nazzi ha dedicato lo spettacolo, ndr). Sostengo che il Male assoluto non esiste, ma a volte non è così».
E in base a cosa dice che il Male non esiste?
«Cerco di contestualizzare, guardo le percentuali dei reati e delle denunce: gli assassini costituiscono una parte infinitesimale della popolazione. Esistono e bisogna farci i conti, ma viviamo in un mondo più sicuro di quello di 30 anni fa».
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