Il Messaggero, 8 agosto 2024
Ricky Tognazzi ricorda suo padre
«Potrei raccontare l’estate in cui ho conosciuto mio fratello», riflette Ricky Tognazzi, primo figlio del grande Ugo, fratellastro di Gianmarco, Maria Sole e appunto Thomas Robsahm, il norvegese della dinastia, che conobbe il padre e tutto il resto della “ciurma” al compimento dei sette anni, nel 1971.
Poi però cambia idea, si consulta con la moglie Simona (Izzo), e con la memoria torna all’estate 1990. Fu un anno importante, quello, per lui. In estate girò la sua opera seconda, Ultrà, dopo aver esordito l’anno precedente con Piccoli Equivoci (ma il debutto vero fu nel 1988, nella serie Piazza Navona, supervisionata da Ettore Scola). Da tre anni era fidanzato con Simona, che aveva conosciuto recitando sul set del debutto di lei alla regia, Parole e baci, e proprio Simona aveva scritto, insieme a Graziano Diana e Giuseppe Manfridi, il copione di Ultrà (Tognazzi e Izzo, in questi giorni, hanno appena chiuso il set di Francesca e Giovanni in tempo di guerra, film su Francesca Morvillo e Giovanni Falcone). «Eravamo all’inizio della nostra lunga relazione, dopo qualche anno ci saremmo sposati».
Insomma: tutto nella norma di una bella estate come tante? Non proprio. Perché quell’estate, in cui sbocciava il regista Ricky Tognazzi, sarebbe stata anche l’ultima del grande Ugo. Suo padre.
Che estate fu, quella del 1990?
«Quella di Ultrà. Quella dei mondiali di calcio. E l’ultima di papà, che morì a ottobre. L’estate del 1990, per me, finì in quel modo».
Che diceva, papà, della sua seconda regia?
«Dopo aver rotto il ghiaccio con Piccoli equivoci, si era tranquillizzato. Aveva capito che ero capace: il dramma, semmai, era stato confrontarsi con lui all’inizio. Ma ormai l’avevo convinto».
E come faceva a saperlo?
«Successe dopo la prima di Piccoli Equivoci, in un cinema a Milano. Scattò subito l’applauso, ma in quelle proiezioni non vuol dire niente: alle prime si applaude sempre, anche se il film è brutto. Prima che si spegnessero le luci, però, papà si avvicinò a Lucio Ardenzi (il produttore, ndr) che gli era seduto accanto e gli disse piano piano all’orecchio, titubante: “Lucio che dici, il film mi pare carino. O sbaglio?”. E Lucio gli disse di sì. Che ero capace, e bravo. Quella sera, quando si accesero le luci, Ugo fu la prima persona di cui cercai lo sguardo».
Torniamo al 1990, l’estate del set di “Ultrà”. Ricordi?
«Fu un’avventura. Un caldo come quello che c’è a Roma in questi giorni, e noi giravamo con gli attori che indossavano i giubbotti dentro un treno dismesso, a Borgata Fidene. Il Patata, che era il nostro macchinista, costruì un capannone di dieci metri per dieci, tutto foderato di panni neri, per girare gli interni. Senza aria condizionata, naturalmente. Il 70% del film fu girato là dentro. Ma il problema fu un altro, oltre al caldo».
Quale?
«Avevamo appena scritturato Claudio Amendola nel ruolo di Red (l’ultrà della Roma protagonista del film, ndr), ed era perfetto, visto che da autentico tifoso conosceva quelle dinamiche benissimo. Ma perdemmo per strada il cattivo del film, Principe (l’antagonista ultrà, ndr): doveva interpretarlo Sergio Rubini, ma alla fine mollò per altri impegni».
E come avete fatto?
«Abbiamo cercato ovunque. A un certo punto vediamo Ricky Memphis al Maurizio Costanzo Show che recitava le sue poesie metropolitane. Lo facciamo chiamare da Claudio, poi gli faccio il provino: un campione. Un solo problema: non aveva la faccia del cattivo. Per niente. A quel punto, Simona ha un’idea: il cattivo lo facciamo fare a Claudio Amendola. Che però ci disse di no».
E come lo ha convinto?
«Tutto merito di Simona: lo ha lusingato. Gli ha detto: scusa, ma secondo te, tra un maschio alfa cattivo e un maschio buono, una donna chi sceglierebbe? Chi ha il più alto potenziale erotico? E infatti Ultra è stato uno dei primi film che ha fatto sua l’estetica del cattivo, dell’antagonista, quella poi riprodotta dalle serie tv con i cattivi al centro, da Romanzo Criminale a Gomorra. Siamo stati i primi».
Con i mondali, che si giocavano in contemporanea, come ve la siete cavata?
«Fu un problema. Non c’erano i cellulari e nemmeno Sky per tenerci aggiornati, quindi abbiamo fatto un piano di lavorazione per cui, durante le partite dell’Italia, ci si fermava. Abbiamo visto partite alle stazioni, nei bar di periferia, ovunque...».
E l’ultima partita dell’Italia?
«Fu Italia-Argentina (finita ai rigori 3-4, ndr), la guardammo a Cinecittà perché giravamo di notte. Dalle 20.30 abbiamo preso una pausa lunga: il quartiere era silenziosissimo... e purtroppo è rimasto silenzioso anche dopo, dato che abbiamo perso. D’altra parte, se avessimo vinto, non so quando lo avremmo finito, il film. Diciamo che Maradona ci ha salvato le riprese».
Papà ha visto il film?
«Abbiamo montato in autunno e il lavoro sembrava non finire mai. A ottobre mi diceva: “Allora, quando finisci? Esci, o te cacciano via... quando me lo fai vedere?”. Gli risposi che il giorno dopo organizzavo una proiezione di controllo, per i montatori, senza le musiche. Ma ha insistito: “Preferisco vederlo finito”. Purtroppo non ha fatto in tempo. Ma io gli ho dedicato il film».
Con quale dedica?
«A Ugo. Mio padre, maestro e amico».
Perché?
«Perché è stato esattamente questo, per me. E quel film, quell’estate, per me resteranno sempre indimenticabili. Dentro c’è un pezzo di famiglia: ci recitano anche Gianmarco e la sorella di Simona, e poi c’è la dedica a Ugo. Il film andò a Berlino, vinse l’Orso d’argento (condiviso con Il silenzio degli innocenti di Jonathan Demme, ndr): fu un momento forte per tutti. Un’estate, in tutti i sensi, davvero indimenticabile».