La Stampa, 8 agosto 2024
Vita da ricercatore
«Non so se la mia gavetta finirà mai. Non so se riuscirò mai a fare ciò per cui ho studiato: essere assunta da qualche università come professoressa ordinaria e ricercatrice. Il Ministero continua ad aumentare le tipologie di contratto che però ci ingabbiano in una macchina burocratica senza uscita. Tanto che ormai, non ci chiediamo più “quando” verremo assunti. Ma “se” mai succederà». Non si dà pace Federica Lazzerini, 32 anni, ricercatrice all’Università di Torino. È esasperata. Perché sembra che tutti i sacrifici che ha fatto – il dottorato a Oxford in lettere classiche nel 2021 e due assegni di ricerca all’Università di Torino – non bastino mai. L’impressione è che, con il nuovo disegno di legge firmato dalla ministra dell’Università Anna Maria Bernini, la strada si faccia ancora più in salita. «Aumentare le tipologie di contratto di per sé non sarebbe un male. Se non ci fosse tutta la burocrazia dietro», dice Lazzerini. La sua paura è che, allargando il ventaglio di contratti, il risultato sia allungare ancora di più il percorso per diventare professori ordinari (ovvero essere assunti a tempo indeterminato). «Se questi contratti fossero un’alternativa l’uno all’altro allora potrebbe avere senso – dice Lazzerini – Se invece, come già accade, diventano una sequenza, non ne usciamo».
Lazzerini ripensa ancora agli anni di Oxford. Anche all’estero il precariato non manca e gli assegni di ricerca sono a tempo determinato come in Italia. Ma il percorso verso l’assunzione è più breve. Lei è dovuta tornare a casa per motivi famigliari. Ma ha fissato una scadenza: se fra 5 anni è ancora instabile, lascia tutto. «Ho già un piano B: fare il concorso come docente alle scuole superiori», dice. Non è l’unica. Come lei, in tanti hanno deciso di abbandonare la ricerca perché non vedevano la fine del percorso. Secondo le stime in questo settore si resta precari almeno dieci anni. Si inizia verso i 31 anni (appena conseguito il dottorato) e si finisce intorno ai 43. C’è chi prova il concorso all’età di 48 o 49 anni. E con il nuovo disegno di legge la situazione potrebbe peggiorare. «Combinando le varie tipologie di contratto si può arrivare a sfiorare i 20 anni di precariato», stima Davide Clementi, vice segretario dell’Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia (Adi). Tant’è che per lui «questo è un progetto che umilia la ricerca». Perché si verrebbe «pagati meno e pagati peggio». Ciò che preoccupa di più è il passaggio dagli assegni di ricerca, che portano con sé le tutele dei contratti co. co. co, a borse di studio «prive di ogni garanzia minima previdenziale e assistenziale – dice Clemente – perché stiamo parlando di borse che vengono date a figure non inquadrate come lavoratori subordinati».
Con questa roulette di contratti, però, gli aspiranti ricercatori devono fare i conti con il proprio futuro. «Non è detto che la gavetta vada liscia – riflette Lazzerini –. Non è detto che le persone possano andare avanti in queste condizioni a lungo. Se ora volessi fare richiesta per un mutuo, probabilmente dovrei cambiare lavoro». In tanti rinunciano a diventare ricercatori proprio per questo. Per fare una famiglia. O perché devono mantenere qualcuno, o comprare casa. Ne sa qualcosa Giuseppe Gatti, ricercatore di origini umbre di 40 anni. Dottore dal 2016 in discipline cinematografiche a Roma e adesso lavora a progetto all’Università di Torino. Senza dimenticare le difficoltà del passato. «In tutti questi anni ho dovuto svolgere anche altri lavori per mantenermi – dice –. Purtroppo la mia famiglia non è benestante e dovevo trovare una soluzione per sopravvivere». E così, in più di dieci anni di carriera dentro l’università, si è trovato ad alternare lavori come l’animatore di villaggi, l’autore teatrale e l’insegnante di danza. Si chiama «exit strategy»: pensare a una via di fuga. Ormai lo fanno tutti. Gatti ancora oggi non esclude la possibilità di cambiare vita. Tra due anni scadrà l’assegno di ricerca che lo ha portato all’Università di Torino. «Avrò 42 anni, con alle spalle un’abilitazione nazionale e la valutazione di “idoneo all’insegnamento di ruolo” – spiega –. Eppure, tutto questo non basta. Se non dovessi trovare un’altra posizione, può essere che molli tutto». Per lui, questo funzionamento si chiama “economia della promessa": «Ti fanno credere che se aspetti in qualche modo entrerai. Ma non tutti possono attendere i 50 anni per capire anche solo in che città vivere».
Tra precariato, burocrazia e prospettive di vita, in tanti scelgono di andare all’estero. «Capisco quelli che vanno via – alza le spalle Lazzerini –. Sembra che lo sappiano tutti ma è davvero pieno di ricercatori italiani fuori dai nostri confini». Per lei, il motivo è che «l’Italia ci forma bene investendo tanto nel nostro percorso, ma poi non ci consente di restare qua». E aggiunge, non senza amarezza: «Molti miei colleghi che sono andati all’estero sarebbero rimasti volentieri qui. Ma non lo fanno perché le condizioni di lavoro non valgono la candela. E questo va tutto a vantaggio dei Paesi esteri, anche se non è giusto». —