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 2024  agosto 08 Giovedì calendario

Intervista a Giancarlo Zanatta, l’uomo che inventò i Moon Boot

da pubb. a dicembre
Mentre tutti guardavano la luna, c’era chi osservava i piedi. Degli astronauti appena scesi dall’Apollo 11 tanto si è visto. C’è chi rimase colpito dal casco, chi dalla tuta, chi dall’ambiente esterno.
Giancarlo Zanatta si soffermò sugli stivali e con quell’intuizione ha costruito una fortuna. È il papà dei Moon Boot, mitici scarponi doposci indossato anche da Paul McCartney, Madonna, Rihanna, Carolina di Monaco e Paris Hilton. «E a nessuna di queste persone ho mai chiesto di posare per noi. L’hanno fatto loro, semplicemente perché gli piaceva il prodotto. Io sono della vecchia scuola: meno influencer e più qualità, design e prezzi corretti». A 86 anni Giancarlo Zanatta si presenta in azienda anche in queste mattine di torrido agosto. «Ma sono gli ultimi mesi, a fine anno ho intenzione di smettere», rivela, e sembra sia dal 2015 che lo va dicendo ogni anno. A Giavera del Montello (Treviso), nel quartier generale di Tecnica Group, colosso proprietario anche dei marchi Nordica, Lowa, Blizzard e Rollerblade, un tazebao celebra quella che è la più famosa intuizione di quest’uomo del fare.
Davvero è nato tutto così, osservando un manifesto alla stazione centrale di New York?
«Certo, era il 1969, mese di ottobre. Mi trovavo negli Stati Uniti per cercare un varco nel mercato americano. Ero in attesa del treno per Westport, Connecticut, dove soggiornavo. Nell’atrio dell’edificio troneggiava una gigantografia, un’enorme diapositiva colorata che ritraeva l’allunaggio di Armstrong e di Aldrin».
Ma quell’immagine l’aveva sicuramente già vista in televisione.
«A luglio anch’io, come tutti, ero rimasto incollato allo schermo di casa ma le immagini non erano così nitide. Guardando per la prima volta quell’immensa diapositiva ad alta definizione, che svettava su un’intera parete, rimasi attonito. E mi concentrai sulle scarpe».
La ispirarono?
«Certo, non pensavo ad altro. Cominciai a elaborare l’idea di progettare una scarpa di uso comune che avesse le stesse sembianze di quello stivale. Disegnai una sagoma su un pezzo di carta, ma non trovai molti consensi tra chi mi stava intorno. Io però ero convintissimo».
E cosa successe?
«A settembre del 1970 li presentai in fiera a Milano. In quattro mesi ne vendemmo 6 mila paia, l’anno dopo20 mila, quello dopo ancora 40 mila, poi 100 mila e nell’84 arrivammo a un milione. Solo con la nevicata dell’85 in Emilia Romagna ne vendemmo 70 mila paia. Davanti all’azienda stazionavano decine di furgoni in attesa che i doposci uscissero dal reparto produzione».
Prima dei Moon Boot cosa si usava come doposci?
«Noi facevamo scarponi in pelle di capra o di foca».
Perché hanno avuto questo successo, secondo lei?
«Perché era un prodotto semplice, e le cose semplici sono sempre le migliori. Sono piaciuti al punto che non c’è stato nemmeno bisogno di promuoverli. Quando vidi la foto di Paul McCartney non credevo ai miei occhi. Poi sono stati esposti persino al Moma di New York».
Per questo, forse, lei non crede molto nella figura degli influencer.
«Io credo nell’innovazione ma senza perdere di vista la sostanza delle cose. I nostri migliori influencer sono i consumatori. Poi se McCartney e Madonna li hanno indossati, vorrà dire che gli sono piaciuti».
Ora parli un po’ di lei. Chi è Giancarlo Zanatta?
«Un figlio d’arte. Mio nonno ha cominciato a fare scarpe, mio padre faceva scarpe. Ero quasi ragioniere quando un giorno tornando a casa dissi: voglio fare scarpe».
E suo padre cosa le rispose?
«Disse che gli andava bene ma che mi avrebbe mandato da un collega a Treviso. Era il 1955. Ogni giorno partivo in bici alle 6.30 di mattina e tornavo a sera inoltrata. A 18 anni tornai nel laboratorio di famiglia, avevamo 7 operai. Facevamo scarpe su misura, scarponi da montagna ma anche semplici riparazioni».
Avete avuto una crescita impressionante.
«Tra sci, scarponi, Moon Boot e scarpe da trekking vendiamo 6 milioni di pezzi ogni anno. Abbiamo due fabbriche in Ucraina, una in Ungheria, quattro in Slovacchia, una in Austria, una in Germania e una sede negli Stati Uniti. I dipendenti sono circa 4000».
E la vita privata?
«La mia vita privata è molto semplice. Ho una bravissima moglie, Fedora, e tre bravi figli: Sandra, Monica e Alberto. Ho cominciato a fare vacanze dopo i 40 anni e le mie giornate erano solo casa e fabbrica.
Difficilmente sono andato a letto dopo mezzanotte. La famiglia è fondamentale per fare il mio lavoro, perché serve stabilità emotiva».
Dunque ha passato la vita nei suoi stabilimenti.
«Non solo, io ho girato il mondo per lavoro. Sono stato in Cina, Giappone, Norvegia, Germania, centinaia di volte in America. Facevo esperienza in fabbrica ma guardavo anche cosa facevano gli altri fuori. Questo è il suggerimento che vorrei dare ai giovani».
Ecco, faccia un appello ai giovani.
«Girate il mondo e cambiate posto di lavoro, se volete crescere».
Come? Niente posto fisso?
«Al posto fisso ci si può pensare dai 50 anni in su. Prima bisogna girare il mondo, imparare. Chi rimane chiuso nel proprio guscio non fa tanta strada».
Ha qualche rimpianto?
«Nessuno, ho fatto il mio dovere».
E sulla sua successione?
«C’è mio figlio Alberto. Ma anche per i nipoti, se vorranno, c’è un percorso disegnato».
Il Moon Boot, secondo lei, avrà lunga vita?
«Sì ma deve essere aggiornato, vedrete nell’inverno del 2025».
Un giudizio sul governo attuale?
«Pochi si salvano ma ci sono anche alcune brave persone, lasciamoli lavorare».
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