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 2024  agosto 04 Domenica calendario

Viviamo immersi nella magia di Sinner e allora chi meglio di David Foster Wallace per iniziarcial tennis letterario? Autore amatissimo che non sarà mai abbastanza raccontato...

David Foster Wallace (1962-2008) lo troverebbe quantomeno riduttivo ma fra le sue tante pagine quelle che mi tornano in mente prima delle altre sono due barzellette: il cuoco che cucina cacca di alce (La scopa del sistema, Einaudi, pagg. 498- 499) e la signora incastrata nel water (Una cosa divertente che non farò mai più, minimum fax, pagg. 134-137). Le ricordo perché interrompono bruscamente la narrazione, ma soprattutto perché fanno davvero ridere. In effetti, il divertimento e l’interruzione sono due modalità fondamentali della scrittura di Wallace. Da una parte la battuta di spirito, la storiella esilarante, lo sketch, l’accostamento irrituale; dall’altro il gusto del frammento, le note a piè di pagina, le digressioni, i finali in sospeso (La scopa del sistema chiude addirittura con una frase tronca).
In vita, David Foster Wallace ha firmato solo due romanzi: La scopa del sistema (1987), nato come tesi di laurea, e Infinite Jest ( 1996), il maggiore (anche nella mole: 1.181 pagine fitte fitte, più altre 100 di note e di note alle note). Il primo racconta di una bisnonna 92enne volatilizzatasi da una casa di cura e della nipote che la cerca; il secondo, di un film letale, di un’accademia di tennis e di una clinica per tossicodipendenti. L’incompiuto Il re pallido (2011), ambientato nell’agenzia tributaria statunitense, è uscito dopo il suicidio dello scrittore, causato da una depressione tenuta a bada per gran parte dei suoi 46 anni. Il resto sono racconti, saggi e pezzi giornalistici. Tutti testi acuti, strabilianti, appaganti.
Conoscitore profondo e bulimico della storia della letteratura (ma anche di saggistica filosofica e matematica), Wallace è stato il figliol prodigo del postmoderno. Alterna linguaggio alto e basso, registro accademico e slang scatologico, pesca dalla tv, dalla pubblicità e dai trattati filosofici: gli esegeti lo incasellano nella categoria “realismo isterico”. Ha recuperato stili e trovate sperimentali dalla generazione precedente (i dialoghi “al buio” di Manuel Puig, l’umorismo stralunato e iperrealistico di Don DeLillo, l’interruzione meta letteraria di John Barth) ma al contrario di molti coetanei ha mantenuto una fede incrollabile nella vitalità del romanzo e nel dialogo col lettore. Ha ripreso la metafiction (che di per sé sabota la narrazione) e l’ha rimontata disponendola in una nuova forma di racconto, un po’ memoir, un po’ parodia, un po’ fiction sperimentale, sempre ricco di senso. «L’arte è significato», scriveva in uno dei suoi primi saggi, «e il significato è potere: il potere di colorare i gatti, di mettere ordine nel caos, di trasformare il vuoto in terreno solido e il debito in tesoro».
Chiarissimo ed enigmatico, realistico e surreale, Wallace tratta con umorismo le situazioni più orride, tinge gli spunti comici di dolore esistenziale, è in grado di riuscire volgare e aulico nella stessa frase. Usa trucchetti ricorrenti, come le imperfezioni fisiche dei personaggi, afflitti da brufoli, porri, cisti, unghie rotte, piccole ferite ( l’incipit de La scopa del sistema: «Molte ragazze davvero belle hanno dei piedi davvero brutti») e il “voi” dato al lettore. Sono soprattutto gli accostamenti a sbalordire: «lo skyline a forma di elettrocardiogramma», il dolore psichico che diventa «una specie di peritonite dell’anima», il giocatore di tennis in modalità power- baseline che somiglia a «un filmato sulla vecchia Unione Sovietica che reprime una ribellione». Un funambolo della parola e della struttura. Di questa abilità spettacolare, pirotecnica, lisergica, Wallace aveva anche paura, per il rischio di produrre nuova retorica, o esibizionismo – quello che chiamava il “mamma- guarda-senza-manismo”. Non gli è mai interessato fare il rivoluzionario, mettere in crisi, provocare. La dote primaria di Wallace è un’altra: una grande generosità verso il lettore, la voglia di entrarci in contatto, di stimolarlo, di metterlo perfino in moto (spingendolo a spostare l’occhio dal testo alle note, o ad alzarsi dalla sedia per cercare una parola inusuale sul vocabolario). Così il pubblico gli resta fedele, disponibile a seguirlo anche nei territori più ostici (il saggio matematico Tutto, e di più) o bislacchi (il lungo romanzo breve Verso Occidente l’Impero dirige il suo corso). Jonathan Franzen, suo fraterno rivale, ha scritto che «la cosa singolare della narrativa di David è quel senso di accettazione e conforto, quella sensazione di essere amati, che provano i suoi lettori più devoti quando lo leggono». Non potrebbe essere altrimenti: il percorso nei libri di Wallace è spesso accidentato e può anche diventare impervio ma la promessa di una ricompensa d’intelligenza e umorismo viene sempre mantenuta.
Capace di gettarsi di testa dentro il buco nero della disperazione, Wallace è sempre e comunque attraente, appassionante, soprattutto empatico: con i suoi personaggi, che siano ragazze dai capelli strani o uomini schifosi, e con i suoi lettori. Un antidoto contro la solitudine, come s’intitola una raccolta di interviste. Le barzellette e le altre forme di umorismo sono un salvagente nella tempesta, uno sguardo lucido sul grottesco della tragedia esistenziale. Oppure solo un po’ di fiato da tirare fra un tornado della vita e l’altro. «Non le pare che una barzelletta come questa valga un po’ di respiro?», dice la raccontatrice della storiella sulla cacca d’alce. «Eccome se lo vale», le risponde l’altro. «Pare anche a me». Pare anche a noi.
 
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