Robinson, 4 agosto 2024
Biografia di Truman Capote
Quando arrivò a Bel Air, Los Angeles, nel pomeriggio del 23 agosto, il suo viso pareva disfatto, coi lineamenti perduti e spogli. Lo ospitava un’amica gentile che la mattina dopo andò a svegliarlo. Lui la pregò di lasciarlo ancora dormire e quando lei verso mezzogiorno tornò in camera, Truman Capote era morto. Solo, senza scampo, sfinito, in silenzio. Gli mancava un mese e avrebbe compiuto sessant’anni, era il 25 agosto 1984. Il coroner lo dichiarò morto alle ore 12.21, senza fare domande, anche se nei giorni precedenti era vissuto in una frenesia di Valium e Dilantin, di codeina e Tylenol, placati da due o tre barbiturici diversi. Una morte attesa, per lo meno non evitata, una morte per finire una vita fortunata, di grande successo, disperata.
Truman Capote agli inizi del 1966 era ormai quasi ricco, una decina di libri prontamente pubblicati anche in Europa. C’era stata la fortuna di Colazione da Tiffany, il film tratto dal suo romanzo, con la meravigliosa Audrey Hepburn, uscito nel ’61. Adesso arrivava nelle librerie la tanto attesa “non fiction novel”, A sangue freddo. Subito tradotto in 26 lingue (in italiano nello stesso anno). Era il racconto dell’agghiacciante quadruplice omicidio di una intera famiglia benestante, i Clutter, massacrati da due giovani appena usciti dal carcere, Dick Hickock e Perry Smith: nel 1959, in Kansas. Per scriverlo, Capote aveva deciso di applicare il metodo che, sfuggendo al romanzo, rispettava il più possibile la verità. Tra i due assassini e lui si formò una specie di amicizia e quasi di pietà. Qualche anno dopo, l’impiccagione fu fissata per il 14 aprile del ’65. Capote cercò di sottrarsi all’orrida cerimonia, ma al suo bellissimo libro mancava la desolata fine. Così, straziato, piangendo, assistette all’orrendo finale e poi telefonò a Jack Dunphy, il suo amante, che rispose duramente: «Loro sono morti ma tu sei invece vivo».
Come sono brevi i centenari oggi, 100 anni sembrano ieri. Ma se vuoi sapere cosa si prova a uccidere, non hai che da leggere A sangue freddo. Adesso e sempre. Truman è morto a una età che oggi lo fa ancora giovane, e poco prima che essere omosessuale non fosse più una anomalia. Forse è morto non per essere stato bandito dai suoi ricchi amici, ma per la sua incapacità a reagire, o forse per aver perso del tutto la bellezza dello scrivere. Lui aveva sognato tutta la vita di essere amato dalla gente ricca, e adesso il loro rifiuto gli toglieva il respiro. O forse Truman si ricordava della madre che si era uccisa col Seconal, ancor bella a 49 anni, il 4 gennaio del 1954. Fu lui a dire agli amici «nessuno mi ha fatto soffrire come lei». La madre rifiutava con violenza quella sua certezza, l’essere omosessuale senza problemi, che tra l’altro poi gli permise di diventare il grande crudele amico-nemico delle sue belle dame. Alle zie in Alabama, a Monroe ville, dove aveva passato la sua infanzia, aveva detto altro: «Io diventerò uno scrittore».
Tornato a New York dopo il secondo e apparente ricco matrimonio della mamma, fu preso al New Yorker come fattorino: aveva 18 anni e i suoi scritti, ma la rivista li rifiutò tutti. Poi nel 1948 riuscì a vedere pubblicato Altre voci, altre stanze (l’anno dopo in Italia) e il successo fu immediato. Era nato un nuovo scrittore e non sembrava una esagerazione, perché allora i ragazzi erano uomini, e anche a 20 anni come tali si comportavano. Tanto per dire, il guadagno per il libro servì a Truman per allontanarsi dell’ormai molesta mamma e a comprarsi un piccolo appartamento tutto per sé.
Le fotografie che cominciarono a invadere le redazioni con la sua bionda giovinezza ne acuivano la malizia, come quella celebre di Harold Halma che mostrava un viso severo e languido, infantile e peccaminoso. I maschi passavano nella sua vita, ma lui si era già innamorato dell’uomo che sarebbe vissuto con lui per almeno vent’anni: si chiamava Jack Dunphy, dieci anni di più, bello e coi capelli rossi. Prima della guerra era stato ballerino e aveva divorziato da un gran bella signora che aveva amato moltissimo e mai dimenticato.
Agli inizi del 1966 andò alla Random House e firmò un contratto per 25 mila dollari: era il suo impegno a consegnare quello che considerava il suo proseguimento della Recherche di Proust: e lui aveva già il titolo, Preghiere esaudite, tratto da una frase di Santa Teresa che diceva «si versano più lacrime per le preghiere esaudite che per quelle non accolte». E qui la storia di Truman si rovescia, o almeno così sostiene Gerald Clarke nella sua biografia: il 1966 non fu un anno di trionfo ma l’inizio di una china tragica e senza scampo. I corpi impiccati e deformati di Dick e Perry non lo abbandonavano e cominciò a bere, a bere troppo, e a prendere le pillole che lo stordivano. Fu forse anche quello che lo spinse a organizzare «il più grande party del secolo», perché nella esagerazione lussuosa di quella festa lui poteva stordire i suoi sensi di colpa.
L’estate la passò a ideare questo Bal Masqué, al Plaza, per il 28 novembre: negli inviti si richiedeva «il piacere della sua compagnia in bianco e nero». Alle ore 22 arrivano i 500 e più invitati, uomini in nero, signore in sfavillanti abiti in bianco e nero, maschere preziose che nascondevano i volti. Secondo Clarke, dovevano esserci «parecchi principi e principesse, due duchi e una duchessa, due marchesi, due marchese, tre conti, un visconte e una viscontessa, un maharajah e una maharani, due lord e una lady». Un trionfo, i giornali ne parlarono per giorni.
Del famoso Preghiere esaudite di cui si parlava ormai da anni non si sapeva quasi nulla. E alle domande degli amici rispondeva, quasi con disprezzo, che tutte le belle signore del jet set internazionale, diventate sue amiche, a cui aveva dato il bel nome di “cigni”, non si sarebbero accorte che quel libro rivelava impietosamente i loro segreti: «Perché tanto erano troppo ricche per accorgersene».
Finalmente nel 1975, su Esquire, Preghiere esaudite uscì in tre capitoli. E c’era tutto il nascosto disprezzo per i famosi cigni, le ex belle signore un po’ in là con gli anni, le desolate signore da sempre infelici, con secondo o terzo marito ricchissimo, perdute nel desiderio sinistro di restare sottili come giunchi. La crudeltà senza scampo riuscì a spingere al suicidio con il Seconal Ann Woodward, che anni prima aveva “per sbaglio” ucciso il marito. Nessuno dei cigni perdonò Truman e di colpo il vuoto si fece attorno a lui. Non aveva più scampo, non riusciva più a scrivere, gli chiedevano da Hollywood gli anticipi scaduti. Il vecchio amico Cecil Beaton era molto preoccupato, mentre l’ex amico Gore Vidal lo aveva querelato. Sentiva di non essere più lui, e parlando di A sangue freddo diceva «mi ha scorticato sino al cervello, mi ha ucciso, in un certo senso credo mi abbia ucciso davvero».
Poi quella sera stanca del 1984 a Bel Air non c’era più voglia di vivere. O di sopravvivere.
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