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 2024  agosto 04 Domenica calendario

Colazione da Truman Capote

Per capire Truman Capote si può provare a partire da qui, da questa casa al numero 70 di Willow street, a Brooklyn Heights, nella parallela della più famosa passeggiata di New York, quella che inquadra lo skyline di Manhattan. Lo scrittore non vedeva niente di tutto questo. La casa è di mattoni rossi, con dettagli di pregio, ma lui abitava nello scantinato, per dieci anni inquilino/ospite dello scenografo Oliver Smith. Aveva cura di invitare gli amici facoltosi quando il proprietario era fuori e fingeva che l’intero edificio fosse di sua proprietà. Nel suo memoir su quel periodo la prima riga è questa: «Vivo a Brooklyn. Per scelta». A capo. Una excusatio non petita. A cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta Brooklyn non era, come adesso, la nuova Manhattan e chi proveniva da lì era accomunato a chi lo faceva dal New Jersey: «Bridge and tunnel people», gente che aveva bisogno di un appoggio per arrivare al traguardo. E Capote lo faceva continuamente, per accompagnarsi a coloro con cui voleva (o credeva di voler) stare: gli happy few, gli uomini e le donne copertina, per mangiare con loro, andare in vacanza nelle loro case o sulle loro barche. Poi però tornava qui e metteva da parte (quasi) tutto quello che aveva visto. Lo risparmiava per il futuro. E scriveva d’altro. Lo faceva con lo sguardo rivolto all’indietro, al passato. Dimentica il fiume, dimentica i grattacieli, dimentica le sale ovattate, i menù nelle custodie di vera pelle, gli autisti e gli skipper personali. Torna sottoterra e occupati di quel che ti appartiene: i ragazzi di campagna, l’abbandono, la tentazione del male, l’America di mezzo, le tavole calde, i padri inconsistenti, gli altri, troppi, uomini delle madri, la gentilezza degli estranei, il bivio nella pianura, da una parte la scampi e dall’altra ammazzi o muori.
Tutta la narrativa iniziale di Truman Capote narra l’eterno ritorno a quei luoghi e a quello stato d’animo. E la fuga, compiuta trasformando sé stesso e chi gli era stato vicino in personaggi. Dal racconto Miriam al romanzo L’arpa d’erba non c’è altro che questo. Dal seminterrato di Brooklyn Truman Capote porta i propri fantasmi a New York, a colazione da Tiffany, poi fa un ultimo viaggio nell’America di mezzo per imbarcare quel che avrebbe potuto essere e non è stato: l’assassino di A sangue freddo. A quel punto, travolto dal successo che aveva tanto desiderato, beve l’elisir avvelenato, lascia la casa in affitto e si trasferisce oltre il ponte. Non gli resta che scrivere di quel che aveva serbato fin lì: definitivamente gli altri, quelli che non erano lui e che avrebbe voluto (o creduto di voler) essere, ma intuendone da sempre la vanità non gli sarebbe rimasto che un ultimo atto: l’omicidio/suicidio.
C’è dunque una prima parte della sua esistenza letteraria in cui Truman Capote si racconta, nel suo universo originario. Una seconda, in cui racconta gli altri, un’adozione soltanto in apparenza riuscita. Una terza in cui smette di raccontare e si prepara a morire. In ognuna delle tre fasi rivela una pena spesso scambiata per empatia (al tempo si sarebbe detto, con un connotato più spirituale: compassione). Nei suoi racconti e brevi romanzi iniziali raffigura le persone che lo hanno formato: il padre assente, gli amici e i nemici d’infanzia, la madre svagata (riconoscibile nello specchio doppiamente deformato di Colazione da Tiffany, dove il “doppiamente” deriva dalla trasposizione cinematografica addolcita dai cambi nella trama e dal volto di Audrey Hepburn). Aveva pietà per loro? Forse da vecchio e ubriaco, re-immaginandoli. Come per gli altri che avrebbe conosciuto dall’altra parte del ponte, tutto quel che gli interessava era coglierli, per poterli ritrarre. Che fossero un’anziana eccentrica o Marilyn Monroe: viverci accanto per poterle raccontare. Vale anche per l’assassino (giacché uno solo dei due veramente lo interessò) di A sangue freddo. Si è spesso detto che a sconvolgerlo fu immaginarsi in quel ruolo, uscito dalla sliding door del proprio destino. Truman Capote non avrebbe mai potuto commettere un delitto, ma come per molte altre cose, avrebbe saputo rappresentarlo. E lo fece. Non soltanto quella volta. Poi si uccise.
Come spiega il film con Seymour Hoffman nella sua parte, si logorò nell’attesa di pubblicare il suo romanzo “definitivo”. Per farlo aveva bisogno dell’esecuzione del suo beniamino o alter ego che fosse. Si trovò per anni a tifare segretamente per una morte che era anche la sua. Guardandosi allo specchio vedeva un cinico ingrassato, impaziente di barattare il successo con un residuo di umanità. Il suo trionfo sarebbe stata la sua fine. Il grande ballo in bianco e nero al Plaza fu la sua celebrazione, ma anche il suo funerale. I fuochi d’artificio scoppiano quando la festa si è conclusa. Da lì in poi ci sarebbe stata la lunga agonia e, finalmente, la verità. Preghiere esaudite, il romanzo frammentario e incompiuto assolve a quel compito. Dire tutto quel che per anni, decenni, aveva raccolto e riposto nel cassetto della sua mente. La verità sulle persone che aveva frequentato e, di riflesso, su di sé. La Côte Basque, il ristorante sulla 55ma strada che dà il titolo al capitolo più forte, non esiste più. Truman non esiste più. I suoi «cigni», le donne dell’alta società che lo invitavano a pranzo, non esistono più. Dove vanno quando arriva l’inverno a Central Park e nella vita? È un dilemma morale che non si è finito di esplorare: ci ha provato anche una recente serie televisiva. Aveva l’autore il diritto di narrare le loro vite nell’intimità, mettendo in pagina anche i segreti che gli avevano confidato? È colpa sua se l’uxoricida impunita e da lui smascherata si è suicidata? Deve aver deciso con tormento e disperazione. Perché quel che stava mettendo in pagina e in scena era anche il prologo al proprio suicidio. Truman Capote non ha avuto empatia con il mondo, con gli esseri umani e neppure con sé stesso. Ha compianto l’uno e gli altri. Lo ha fatto nell’unico modo in cui era capace: scrivendo. La naturale eleganza della sua prosa levigava le asperità, appianava le contese, redimeva il male. La sua etica era la sua scrittura. A quella soltanto ha fatto un giuramento di fedeltà. E adesso si può capire la risposta alle accuse dei cigni defraudati: «Sapevano che ero uno scrittore, o pensavano fossi un maggiordomo?». Non c’erano invidia sociale, vendetta, riscatto, o forse c’erano tutte queste cose insieme, ma quelle pagine perfette su serate vacue hanno la vera motivazione nella forma, nello stile. Era il suo dress code. Chi altro ha potuto e saputo accompagnarci in quel mondo? Ha esaudito la nostra preghiera: che qualcuno ci faccia entrare nelle riservate sale e ci mostri gli schizzi sulle pareti e la polvere di stelle sotto i tappeti. Leggenda vuole che in una cassaforte dalla combinazione dimenticata esistano altri capitoli. Come tempi scaduti. Eppure varrebbero milioni, assai più della metà della metà delle ceneri di Truman Capote, pagate 43.750 dollari per farne che? Custodirle per anni e infine disperderle come un talento, un segreto, una vita.
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