il Giornale, 7 agosto 2024
Come farsi una cultura scorretta e vivere felici
Indignarsi o ironizzare può essere divertente ma è troppo facile e soprattutto inefficace. Di fronte agli eccessi del politicamente corretto, sarebbe necessario, per rispondere a tono, inquadrare i singoli casi e ricondurli a una serrata critica culturale. La buona notizia: esistono gli strumenti adeguati. La cattiva notizia: sono conosciuti da pochi.
Prendiamo le Olimpiadi parigine. Ancora non era stata assegnata una medaglia ma la polemica era già feroce. La cerimonia d’inaugurazione ha offerto una parodia in chiave «gay pride» dell’Ultima cena. La blasfemia era evidente a chiunque non volesse nascondersi dietro a un dito. Si può scherzare sui santi? Certamente sì. Era opportuno irridere in mondovisione il cristianesimo, uno dei pilastri della cultura occidentale? Se ne può discutere. Infatti se ne è discusso e la discussione è finita con le opportune scuse degli organizzatori. Ma proviamo a osservare quanto è successo da un’altra prospettiva. Perché la Francia, e l’Europa, ridicolizza il meglio della propria tradizione mentre considera tabù muovere le più ovvie critiche alle tradizioni altrui, incluse quelle degli immigrati extraeuropei? Il filosofo Alain Finkielkraut ha risposto in un saggio intitolato L’identità infelice (Guanda, 2015). L’Europa, dopo il colonialismo e le tragedie del XX secolo, ha scelto di «denazionalizzarsi» e di rinunciare a «ogni predicato identitario». Spiega il filosofo: «La Francia è a immagine dell’Europa, e ha smesso di credere nella sua vocazione (passata, presente o futura) di guida dell’umanità verso la realizzazione della sua essenza. Per l’Europa non si tratta più di convertire chicchessia (conversione religiosa o riassorbimento della diversità delle culture nella cattolicità dei Lumi), ma di riconoscere l’altro attraverso l’ammissione dei torti compiuti nei suoi confronti. L’Europa è tenuta, più in generale, ad accogliere ciò che essa non è, cessando d’identificarsi con ciò che essa è».
Il disprezzo della propria cultura ha un nome: oicofobia. In L’Occidente e gli altri (Vita e pensiero, 2004), Scruton esamina la questione: «Nel momento in cui ci esorta a essere il più possibile propensi all’accoglienza, a non discriminare né con pensieri e parole, né con azioni le minoranze etniche, sessuali o chi si comporta diversamente da noi, la correttezza politica incoraggia la denigrazione di ciò che sentiamo essere particolarmente nostro».
Un altro caso ha poi agitato le acque torbide della Senna: l’incontro di pugilato femminile tra l’algerina Imane Khelif e l’italiana Angela Carini. Dopo una quarantina di secondi e tre colpi al viso, l’ultimo devastante, la nostra atleta si è arresa. Il problema, come ormai tutti sappiamo, è l’alto livello di testosterone di Khelif. L’ormone influisce sulla muscolatura e sulla aggressività. Il vantaggio di Khelif non era contro le regole. Ma l’inghippo nasce proprio dalla difformità di giudizio tra Comitato olimpico, molto inclusivo, e Federazione, meno inclusiva. Il dilemma si è ripresentato quasi identico con altre atlete e ha anche innescato la polemica delle sconfitte, che hanno mostrato al pubblico una doppia x con le dita. Come a dire: io sono donna (cromosoma XX) ma lei...
Evidentemente, questa confusione è segno di una confusione più ampia. Possiamo provare a capirla partendo da un libro di Giulio Meotti Gender. Il sesso degli angeli e l’oblio dell’Occidente (Liberilibri, 2023). Un tempo era ovvia l’idea che si nasce maschi o femmine, che i primi hanno cromosomi XY e le seconde XX, che la differenza sessuale è biologica. Poi, si è deciso che l’orientamento sessuale è un fatto culturale e non naturale. Non si nasce uomo o donna. Si diventa uomo o donna o altro. Dove altro significa un insieme sempre più ampio di casi sempre più particolari. Nell’introduzione al libro di Meotti, l’intellettuale francese Richard Millet scrive: «Un nuovo spettro ha iniziato a infestare l’Occidente: il gender, emerso dal calderone degli studi di genere americani che stanno plasmando nuove norme sessuali e il discorso che le accompagna, pervertendo anche il genere grammaticale con una scrittura inclusiva». E così si spiegano anche le incursioni nel campo della grammatica, con il tentativo, fallito perché cervellotico, di introdurre il schwa, l’asterisco o altre soluzioni per rendere la lingua ibrida, ma sarebbe meglio dire neutra. Conclusione di Meotti: «La sinistra aveva promesso di cambiare la società e ha fallito; ora si propone di cambiare l’uomo. Sopprimere la differenza sessuale con il pretesto che una differenza è una disuguaglianza, è intraprendere la strada della costruzione di un nuovo essere umano, liberato dal suo sesso».
Per chi volesse informarsi su cosa ha dato il via alla saga del politicamente corretto, c’è l’imbarazzo della scelta. I due classici sono La chiusura della mente americana (Lindau, 2009) di Allan Bloom. La prima edizione originale è del 1987. Bloom espone il paradosso del relativismo. La nuova cultura sarebbe mossa dal desiderio ossessivo di diffondere un atteggiamento di apertura mentale ma ha ottenuto il risultato opposto, diventando dogmatica e intollerante. Dal politicamente corretto alla cancel culture, il passo è breve.
L’altro classico è La cultura del piagnisteo (Adelphi, 1994) di Robert Hughes. Scrive il critico d’arte: «La cultura del piagnisteo è il cadavere del liberalismo degli anni Sessanta, è il frutto dell’ossessione per i diritti civili e dell’esaltazione vittimistica delle minoranze». La forma è tutto, il contenuto è nulla. Il male e la sventura svaniscono «con un tuffo nelle acque dell’eufemismo». Hughes, scrittore dalla vena sarcastica, ci andava giù duro: «L’assortimento di vittime disponibile una decina di anni fa negri, chicanos, indiani, donne, omosessuali – è venuto allargandosi fino a comprendere ogni combinazione di ciechi, zoppi, paralitici e bassi di statura o, per usare i termini corretti, di non vedenti, non deambulanti e verticalmente svantaggiati. Mai, nel corso della storia umana, tante perifrasi hanno inseguito un’identità». Le vette di cattiveria gli costarono l’accusa di omofobia: «L’omosessuale pensa forse che gli altri lo amino di più, o lo odino di meno, perché viene chiamato gay (un termine riesumato dal gergo criminale inglese settecentesco, dove stava a indicare chi si prostituisce e vive di espedienti)? L’unico vantaggio è che i teppisti che una volta pestavano i froci adesso pestano i gay».
Dalla polemica, passiamo alla politica. Quali sono gli effetti della cultura del piagnisteo? Qui viene in soccorso Giovanni Sartori con il saggio Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Saggio sulla società multietnica (Bur, 2000). Il pluralismo, scriveva lo studioso, è fondato sulla tolleranza e valorizza la diversità. La società pluralistica è la società aperta teorizzata da Karl Popper: «In quest’ottica la domanda che più ci assilla è: aperta di quanto? La società aperta quanto aperta può diventare? La elasticità (apertura) della società aperta è attualmente messa a dura prova sia da rivendicazioni multiculturali interne (come negli Stati Uniti), sia dalla massiccia pressione di flussi migratori esterni (come è soprattutto il caso dell’Europa)». Il multiculturalismo «è anti-pluralistico». I suoi presupposti conducono alla «secessione culturale» e alla «tribalizzazione» perché fanno «prevalere la separazione sull’integrazione». Le rivendicazioni di un numero crescente di minoranze (spesso astoriche e inventate di sana pianta) portano «a leggi diseguali caratterizzate da eccezioni» ovvero al contrario dei presupposti sui quali poggia lo Stato liberale: «Il passo all’indietro è mastodontico».
Abbiamo tracciato un percorso, uno fra i tanti. Si poteva partire dal Tradimento dei chierici di Julien Benda, passare da Radical chic di Tom Wolfe, arrivare all’Inverno della culturadi Jean Clair. E che dire, fra gli scrittori, di Michel Houellebecq, Bret Easton Ellis, Philip Murray o Mario Vargas Llosa? Magari ne parleremo un’altra volta...