La Stampa, 6 agosto 2024
Intervista a Luca Manfredi
«Nei confronti di mio padre ho sempre avuto affetto grandissimo, però, certo, il nostro è stato un rapporto difficile, conflittuale». Luca Manfredi non si nasconde dietro le frasi di rito, quel legame nutrito di differenze e distanze lo ha segnato, così oggi da una parte si stupisce e si dispiace perché le nuove generazioni conoscono poco il talento del genitore scomparso, dall’altra ripercorre con memoria intatta la storia di quel legame tormentato. A Taormina, a metà luglio, ha consegnato il Premio Nino Manfredi, giunto alla sua undicesima edizione e quest’anno attribuito a Emanuela Fanelli e a Claudio Bisio.
Nonostante tutto ha scelto comunque di fare il regista, quindi di restare in ambito paterno. Come è andata?
«Avevo deciso di iscrivermi a medicina, mio padre era tutto contento perché già mi vedeva affidato al fratello Dante, mio zio, che era oncologo. Poi è successo che al quarto anno abbia iniziato a frequentare la sala operatoria e abbia cominciato a stare male. Partecipavo agli interventi con troppa emotività, mi era capitato di vedere un paziente morire sotto i ferri, e non mi ero ripreso dallo shock. Un giorno sono andato da mio padre e gli ho detto “lascio Medicina"».
Che reazione ebbe?
«Gli è preso un colpo. Mi disse “sarai un fallito, la vita non ti darà una seconda opportunità”. L’opposto di mia madre Erminia. Ricordo bene la sua reazione, era in camera, stava sistemando un cassetto di calzini e mutande, nemmeno si voltò, mi chiese subito “ah, e che cosa vuoi fare? “».
E lei che fece?
«Mi sono iscritto allo Ied, mi sono diplomato come tecnico pubblicitario e questa cosa, incredibilmente, ha finito per mettere me e mio padre sulla stessa strada».
In che modo?
«Collaboravo con Armando Testa a Torino, facevo la pubblicità Lavazza, ho continuato per 15 anni e così mi sono ritrovato con mio padre, ero io a dirigerlo. Avevo avuto ragione, quando mi aveva dato del fallito gli avevo risposto “non ti preoccupare, a me ci penso io"».
Con l’esperienza Lavazza faceste pace?
«In effetti no. Con quella pubblicità abbiamo vinto tantissimi premi di categoria, una volta mio padre dichiarò in un’intervista che gli sketch li scriveva tutti lui, ma non era vero, voleva solo prendersi tutti i meriti di quel successo. Quella volta l’ho affrontato, gli ho detto quello che pensavo, l’ho accusato per il suo illimitato egocentrismo».
Per il centenario della scomparsa ha girato il documentario Uno, nessuno, cento Nino, nel 2016 ha diretto Elio Germano nel film In arte Nino, e ha anche scritto un libro Un friccico ner core I 100 volti di mio padre Nino. Insomma, ha celebrato suo padre in tanti modi.
«Certo. Sa perché ho scelto Un friccico ner core come titolo per il libro? Mio padre aveva avuto molto successo con quella canzone di Petrolini, ma pochi sanno che quel testo aveva un doppio senso. Petrolini soffriva di angina pectoris, mentre era ricoverato in ospedale scrisse il brano alludendo al suo dolore cardiaco. Anche io, nel libro, parlo di sentimenti ambivalenti nei confronti di mio padre, così quel riferimento mi è sembrato il migliore. In quelle pagine c’è tutto l’amore e l’affetto per Nino, ma anche il mio disappunto per il fatto che non abbia mai fatto veramente il padre».
Lo vedeva poco?
«L’unico modo per vederlo era raggiungerlo sui set dove recitava, ed è lì che ho iniziato ad appassionarmi alla regia, a quel mondo, a questo mestiere».
Com’era a casa Nino Manfredi?
«Non c’era mai, le poche volte in cui era presente si chiudeva nello studio a sceneggiare, con Age e Scarpelli, con Benvenuti e De Bernardi, e pretendeva da noi figli il silenzio assoluto. Dovevamo stare zitti sennò si incavolava a morte. Ne ho sofferto io, ma anche le mie sorelle. Ho ammirato, adorato, Nino come attore, ma come padre molto meno».
Qual è il film di suo padre che preferisce?
«Pane e cioccolata, meraviglioso. Contiene il Dna della nostra famiglia di emigranti».
Diceva che i giovani di oggi conoscono poco Nino Manfredi.
«Mio figlio ha 16 anni, una volta ha organizzato una festa. Mi sono messo a chiacchierare con i suoi amici, volevo fare un piccolo test, mi sono reso conto che nessuno di loro conosceva Nino Manfredi. Quando è morto erano troppo piccoli, l’unico modo per fargli capire chi era è stato citare il Pinocchio televisivo, quello di Luigi Comencini, in cui mio padre faceva Geppetto».
Che cosa aveva di speciale quella versione?
«È l’unico Pinocchio che continua a essere visto da tutte le generazioni, ancora oggi. Era geniale. Mio padre si stupì di essere stato scelto per il ruolo, c’erano tanti attori più anziani che avrebbero potuto farlo, allora era relativamente giovane. Lo disse a Comencini, gli chiese perché avesse voluto proprio lui. E sa che cosa rispose Comencini? “Manfredi ho scelto lei perché è l’unico attore italiano in grado di parlare con un pezzo di legno"».
Com’era suo padre con le sue sorelle Roberta e Giovanna?
«Mia sorella Roberta ha reagito facendo la ribelle, a 14 anni è scappata per la prima volta di casa, non riconosceva l’autorità paterna, si è fidanzata con Alan Sorrenti, ricorda? Il cantante, quello con le sonorità un po’ indiane, allora era ancora sconosciuto, faceva l’impegnato... poi ha fatto i soldi con Figli delle stelle».
E con Giovanna come è andata?
«È la più piccola ed è sempre stata la più quadrata, la più introversa. Ha interiorizzato tutto, ha sofferto anche lei per l’assenza di mio padre, ma è andata avanti, non a caso oggi è la socia di Brunello Cucinelli, una grande manager».
Va d’accordo con le sue sorelle?
«Abbastanza. Ma ci vediamo poco, Giovanna è sempre in giro per il mondo, e con Roberta non ci vediamo spesso... ho avuto problemi di lavoro con suo marito».
Cosa ha imparato da suo padre?
«La serietà nell’approccio al mestiere, mio padre era uno stakanovista, anche io come lui mi preparo sempre moltissimo, non improvviso nulla. È il più grande insegnamento che mi ha dato».
Cosa sta facendo adesso?
«Sto preparando Cattive vicine, l’ho scritto con Dido Castelli, sarà una coproduzione franco-italiana. Abbiamo scritto una pre-sceneggiatura e l’abbiamo proposta a una piattaforma, c’è stato grande interesse. Racconta la piccola guerra privata tra due vicine di casa, ed è un po’ una metafora di quello che sta succedendo nel mondo, del come le persone non riescano a risolvere i problemi semplicemente parlando. Le protagoniste sono due donne che litigano per futili motivi condominiali, aprendo una catena di rappresaglie che le porterà a fare cose che non avrebbero mai immaginato di fare».
Lei si sente realizzato?
«Nessuno lo è mai davvero. Sentirsi arrivati è da sciocchi, c’è sempre da imparare, anche dai propri errori. La vita è una sfida continua».