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 2024  agosto 07 Mercoledì calendario

Biografia di Hubertus Rudolph von Fürstenberg-von Hohenlohe-Langenburg

Dall’attico della casa che fu di Ira Fürstenberg, sua madre mancata lo scorso febbraio, Hubertus von Hohenlohe vede il cuore di Roma e sente il calore di una parte delle sue radici: mamma era nata nell’Urbe. Da qui inizia il racconto di un personaggio particolare e non solo perché a 65 anni continua a fare lo sciatore agonista (per il Messico), la curiosità che l’ha reso popolare. Il Principe, infatti, è molto di più. Immaginatelo come un prisma: ogni faccia racchiude una storia.
Hubertus Rudolph von Fürstenberg-von Hohenlohe-Langenburg: nome un po’ lungo...
«Molto lungo. E con tanti titoli nobiliari. Ma da questa situazione è uscito un ragazzo in linea con i tempi di oggi. Sia mio padre sia mia madre erano moderni e io ho fatto le cose che contano ora, non quelle che importavano nel 1800».
Come artista usava lo pseudonimo di Andy Himalaya.
«È un errore del web: Andy è il titolo di una canzone scritta per Warhol, Himalaya è un altro motivo. Soprannomi? Sì, Hubi. Così mi chiama Albi, cioè Alberto Tomba. Ma nella squadra messicana di sci per tutti io sono The Prince: in Messico sono anche La Leyenda, La Leggenda. Lo trovo bello».
Nato a Città del Messico, matrici tedesca e austriaca, cittadino anche del Liechtenstein; casa in Spagna e a Roma, vicino all’Italia grazie a sua madre, imparentata con gli Agnelli, e alle nozze con Simona Gandolfi, cugina di Alberto Tomba. Di questi mondi, a quale si sente di appartenere di più?
«Come diceva Warhol, io sono “euro”: sono un mix di Paesi, l’Europa è il baricentro. Più che tedesco mi sento uno del Sud. Ma la componente teutonica mi dà, nel mio caos, un ordine».
Dirigente, sciatore, cantante, fotografo, attore: mettiamo in ordine tutti i suoi aspetti?
«Di base sono un artista. Anche nello sci lo sono stato: a parte le tute che ho disegnato, il modo in cui sono riuscito a partecipare a Giochi, Mondiali, Coppa del Mondo, è un’espressione artistica. In che senso? Senza allenatori seri e senza il supporto di una squadra ho inventato tutto, creando un team».
Come mai i natali a Città di Messico?
«Perché papà, Alfonso di Hohenlohe-Langenburg, spagnolo, aveva disputato una gara di auto. Si trovò con dei tedeschi e decisero di lavorare con la Volkswagen: rimase lì, produssero il Maggiolino a Puebla. La nonna era poi messicana, di cognome faceva Iturbe».
Mamma Ira: ce la racconta?
«Una madre atipica. Si è sposata a 15 anni, compromettendo la sua evoluzione umana e come genitrice. A 19 anni non ne poteva più della pressione, oltre che di me e di mio fratello Christoph. Quindi è andata via con un altro uomo. Papà per qualche anno ci ha nascosto perché Ira ci voleva indietro. Il rapporto con lei è partito male, ma poi s’è aggiustato. È stata più sorella che mamma: non sentiva l’istinto materno, mi ha avuto troppo presto».
Quindi, relazioni tese in famiglia.
«Direi difficili per 5 o 6 anni. Papà e mamma tra di loro parlavano in inglese, io usavo lo spagnolo con entrambi. Con il tempo hanno consolidato un rapporto civile. Magari volavano battute, tipo “guarda che moglie ha preso papà adesso”, però nulla di grave».
Ha sofferto per certe situazioni?
«Dopo, quando ho capito quello che hanno avuto gli altri. Prima non ho patito tanto perché ho fatto una bella vita, stando in posti affascinanti come il Marbella Club creato da papà. E con lo sci ho trovato uno sfogo per diventare qualcuno».
Si sente un nobile?
«Mi sento un cittadino moderno del mondo. Sono stato privilegiato, ma non sono mai stato uno snob che vive di storie finte».
Segreti e curiosità di Warhol?
«Mi intrigava incontrarlo: volevo diventare artista. Carmen D’Alessio, regina delle notti di New York, gli segnalò la mia presenza in città. Lui conosceva mia madre e mi invitò alla Factory. C’era un mix umano incredibile, inclusi i pornostar, e si mangiava in modo fetido: non sapevi mai se arrivava qualcosa di caldo o di freddo, di ieri o di oggi. Ma era un ambiente divertente: vedendo le opere di Andy, non immaginavo che sarebbero diventate costose. Voleva fare quattro ritratti alla mamma. Chiese 40-50 mila dollari, a Ira parve tanto. Ha fatto male a rinunciare».
Andy è stato molto amico suo?
«Pochi possono dire di essere stati molto amici di Warhol. Sono stato amico nel senso che avevo il numero di telefono e giravamo assieme, anche con mio fratello, nella 5th Avenue dove faceva shopping. Era affascinato dalle mie gare ai Giochi e dal mio fare musica».
Quanto è bravo come musicista?
«Non saprei, anche se ho realizzato 5 album–— e il sesto uscirà a breve – oltre a un motivo per Shirley Bassey. I miei testi sono però buoni: ho vissuto una vita speciale, racconto cose interessanti».
Sua madre presentò il Festival di Sanremo. Ha mai pensato di andarci come cantante?
«No, ma mi piacerebbe intervenire almeno come ospite. Però non sono così introdotto nel mondo italiano per ricevere un invito».
Quali i cantanti preferiti?
«In Italia Jovanotti: di lui sì sono molto amico. Nel mondo? Impossibile scegliere. Andavo ai concerti dei Rolling Stones e a Marbella ho conosciuto David Bowie: ero da lui, assieme a Sofia d’Asburgo, nella notte in cui scrisse Heroes. Ridevamo, non ci pareva niente di speciale: ma una volta sentito il disco capimmo che sarebbe stato un successo mondiale».
L’arte.
«Nel 2000 ho fatto delle foto nelle quali ero riflesso: tutto è partito così. Pensando ai selfie di oggi, ecco, io li ho inventati più di 20 anni fa grazie all’arte».
Quanto andrà avanti con lo sci agonistico uno che è del 1959?
«Non molto. Di certo parteciperò al Mondiale 2025, qualcuno della squadra messicana andrà invece anche ai Giochi 2026».
Tomba la consigliava?
«Mi guardava e diceva: “Fai così, fai cosà...”. Una volta ero apripista a Kitzbühel e si lamentò perché avevo linee troppo rotonde. Gli dissi che come apripista non dovevo inforcare… Mi incazzavo perché Martina Colombari e Simona, mia futura moglie, una volta sceso Alberto lasciavano la zona d’arrivo sostenendo di essere abituate a vedere solo chi vinceva. Replicavo: potreste però aspettare un Principe...».
Com’è stato il rapporto con gli Agnelli?
«Mia nonna, Clara Agnelli Fürstenberg, era sorella di Gianni: sono il primo della quinta generazione, il più anziano. L’Avvocato, amico di papà, era cool, carismatico. Dopo di lui le cose non hanno preso una bella piega, ma John Elkann sta facendo bene, anche se con meno show. Gli Agnelli di oggi? Discreti e meno istrionici».
La chiamiamo il Principe Mariachi: si offende?
«Macché, sono del Messico! Quando torno, all’aeroporto dicono che non posso essere messicano. Allora li invito a cercarmi in Internet: “Ah, l’esquiador Mariachi!”».
Da papà che cosa ha ereditato?
«Il non prendersi sul serio, la passione per l’arte: disegnava bene. Lo sapete poi che, causa un errore di costruzione di un campo, inventò il padel 50 anni fa? Divenne un “must” a Marbella, gli argentini videro quel mix di tennis e squash e lo importarono. Ora il padel vive un boom».
Della mamma invece che cosa ha?
«L’organizzazione “torinese”: alla fine serve. Poi la simpatia, il viso e il corpo, un po’ grosso».
C’è qualcosa che avrebbe voluto fare e che non ha fatto?
«L’architetto. Alla messicana, usando colori e spazi ampi. Sarebbe stata un’architettura per gente con visione. Ma non mi lamento: come direbbe Vasco Rossi, sono andato al massimo».
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