Corriere della Sera, 6 agosto 2024
Intervista a frate Alberto Fabio Ambrosio, il sarto di Dio
È un caldo pomeriggio romano e Alberto Fabio Ambrosio indossa un impeccabile doppiopetto azzurro cielo. Ma perché non il saio bianco?
«Sarebbe stato troppo facile. Mi arrabbio sempre anche con i miei confratelli, ci sono momenti e momenti per indossarlo. Non servono a niente le sfilate inutili. Nei primissimi anni anche io, quando ero diacono, lo portavo, ma adesso mi sono liberato. Non è necessario diciamo mettere le mani avanti e incasellarsi».
Ambrosio è l’autore di un libro irriverente come «Per una morale contemporanea. Critica della moda pura». Ma è anche un padre domenicano, esperto di sufismo ottomano, professore di storia e teologia delle religioni alla Luxembourg School of Religion e ricercatore al College del Bernardins di Parigi.
«Ho svolto vent’anni di ricerche sull’Islam mistico turco e da ormai più di cinque anni mi dedico alla ricerca delle interazioni fra moda e religioni, tra vestito e sacro e per questo dirigo un seminario di ricerca a Parigi, dove vivo, e un’equipe di ricercatori in Lussemburgo».
Semplificando verrebbe da dire: scusi, ma lei che ci fa qui?
«Non è stato Dio a creare il primo abito per Adamo ed Eva? Nella Bibbia la dimensione di Dio sarto è molto sviluppata. Essendo domenicano, è stato quasi istintivo avere questo approccio. Non dal punto tecnico, non ne sarei stato in grado. Non faccio nomi né entro in merito a tendenze. Non volevo entrare nell’arena e fare il moralista».
La sua storia, allora, prima di parlare di moda.
«Nasco nelle Marche, a Fano, nel 1971. Ma sono cresciuto a Milano, in Bande Nere, quartiere popolare. Papà è mancato presto e mia madre ha tirato su noi tre fratelli. Faceva la sarta».
Eccola la connessione: una madre sarta.
«Quando lei morì tornarono a galla i ricordi della casa sempre piena di abiti con etichette di marchi importanti e poi di me che andavo in merceria a comperare fili e quant’altro. Ero diventato bravissimo, mi muovevo in quei posti sapendo e conoscendo tutto: dai bottoni ai filati. E sì, credo che il giorno in cui proposi una ricerca su moda e teologia fosse in qualche modo legato a lei e al riscatto di quei ricordi».
Superiori al Moreschi, Istituto Commerciale. E la chiamata di Dio quando arriva?
«Al quarto anno è arrivata la vocazione. Sapevo che sarei diventato frate domenicano. Frequentavo Santa Maria delle Grazie e sentivo qualcosa di forte. I libri erano sempre importanti per me. Andavo in biblioteca a preparare la maturità. Sono entrato nel seminario di Padova, ho studiato greco, latino e filosofia. È stato l’anno più impegnativo della mia vita. Il noviziato a Fiesole è stata una passeggiata, si leggeva e si pregava. Prima consacrazione a Bologna, a 25 anni ho preso i voti».
Mai dubbi sulla vocazione?
«Mai. Crescendo magari ti poni più domande, ma dubbi no. Nel ‘97 sono stato ordinato diacono e ho fatto un viaggio che mi ha segnato, a Gerusalemme. Ho conosciuto un biblista e ho scoperto l’Islam. Sono tornato e ho chiesto di andare in Turchia. Ho studiato l’arabo all’università di Strasburgo e preso il dottorato alla Sorbona in storia moderna e un altro diploma in teologia. Poi sono arrivato a Istanbul, dove sono rimasto undici anni e ho scritto molti libri».
Sa che è difficile starle dietro?
«Lo so. Sembra sempre tutto troppo. E a volte c’è chi non ci crede!».
Una specie di intelligenza artificiale... umana!
«Non so. So solo che sono ipersensibile e ci resto male quando vedo lo scetticismo. Però sono felice di quello che faccio. A Istanbul ho insegnato, viaggiato, studiato e scritto libri. Poi sono tornato in Francia per prendere l’abilitazione a Metz e, nel 2016, mi hanno chiesto di restare a Parigi. Avevo una stanza al convento e il direttore del College mi ha proposto un posto di ricercatore. Due anni dopo, la moda è rientrata nella mia vita come eredità spirituale. Nel gennaio del 2018 comprai un numero di Vogue...».
Un padre domenicano che acquista Vogue?
«Ero con un amico e, dopo aver detto messa, sono entrato in un chiosco di giornali a Lussemburgo e l’occhio mi è caduto lì. Alla chetichella, sì, ma l’ho comperato. Anche se mia madre leggeva Grazia. Comunque, nel 2018 mi sono abbonato a Vogue, è stata una fase. Ho avviato il progetto di ricerca in Lussemburgo e nel 2019 il seminario a Parigi sulla moda. Nel 2020 il primo libro, “Dio tre volte sarto. Moda, Chiesa e Teologia” e poi ho continuato con “Moda e religioni, vestire il sacro, sacralizzare il look”, “Il vangelo delle vanità. Moda e spirito” e ho chiuso il cerchio con “Critica della moda pura”».
Un libro, l’ultimo di quattro sul tema, dove etica e morale sembrano essersi persi nella moda, quinta essenza, scrive, del capitalismo, nonché causa di vergogna sociale e di idolatria estetica.
«Non ho fatto altro che incrociare le sensazioni. Per mesi mi sono affiancato a un’azienda e ho osservato e fatto domande. Ho capito lì tante cose. Ho capito che la vergogna è alla base del consumismo capitalista, perché fa leva sul fatto che la mancanza di una data apparenza è percepita come vergognosa e l’unico rimedio è l’acquisto, che illude di estinguere la discrepanza. Dunque, la vergogna di non sentirsi alla moda è la nuova colpa attribuita al sistema moda. Lusso o fast fashion alla fine conducono sempre a questo».
Parla anche di moda «femminicida». Non è troppo forte come termine?
«È un’estremizzazione, certo, come potrebbe definirla se non così? Non prende forse sempre di mira il corpo delle donne per poter dirigere il mercato?».
E della narrazione sulla moda green che green non è...
«Non basta parlare di filiera certificata, non c’è solo il dove ma anche il come e il da chi. Materiali benissimo, anche se dubito che tutti i passaggi si possano controllare, ma sulle condizioni di lavoro chi vigila? Nei campi, negli allevamenti: le persone, le condizioni, i salari. Dubito fortemente che tutto questo sia sempre monitorato».
Però alla fine trova anche la strada della redenzione con l’etica del «care», l’etica della cura.
«Devi trovarla, per forza. Così ipotizzo un ideale di moda che sia etica della cura, che parte da noi, però. Attenzione, cura per quello che già si possiede. Dunque, anche riflessione su quello che non ci serve».
Lei indossa un completo impeccabile che sembra appena uscito dalla sartoria.
«Sono cresciuto con una madre sarta, conosco e faccio sempre tante domande su quello che vorrei acquistare. E sì, lo “confesso”, mi piacciono gli abiti belli, quelli tagliati bene. E ne ho, parecchi. Comunque, saio o doppiopetto, sinceramente, non vedo la differenza. Resto chi sono e non ringrazierò mai abbastanza di vedere il mondo con gli occhi di un religioso».