la Repubblica, 6 agosto 2024
Intervista a Marco Buttu
L’Antartide è il continente degli estremi. È il più freddo, il più ventoso, il meno popolato. E il meno inquinato. Marco Buttu, 46 anni, di Gavoi, nel Nuorese, da quasi nove mesi lavora, a 80 gradi sotto zero, nella Concordia, una delle tre stazioni permanenti nel centro dell’Antartide, continente quasi interamente coperto da ghiaccio e neve.
Ingegnere, come è vivere lì?
«C’è meno ossigeno del normale, molta aria secca, nessuna forma di vita. Ora è inverno ed è buio: a maggio è iniziata la notte lunga 100 giorni. La prossima alba sarà il 10 agosto».
Perché si trova in Antartide?
«Da venti anni qui si svolgono le spedizioni invernali del Programma nazionale di Ricerche in Antartide (Pnra), finanziato da ministero dell’Università e gestito da Cnr, e dell’Istituto polare francese. E questa è la mia terza spedizione. Studiamo la fisica dell’atmosfera, il geomagnetismo, la sismologia, e l’astronomia e la glaciologia. Non esiste altro posto al mondo con del ghiaccio così vecchio e, grazie al progetto Epica, siamo riusciti ad analizzare la composizione atmosferica degli ultimi 800mila anni».
Ci aiuta a immaginare la Stazione Concordia?
«È un mini villaggio che sorge sopra uno strato di ghiaccio spesso tre chilometri. È formata da due edifici cilindrici di tre piani ciascuno ed è dotata di 16 stanze doppie e due singole. C’è cucina, palestra, sala ricreativa, uffici, laboratori. Abbiamo anche una piccola centrale elettrica e un impianto di riciclaggio dell’acqua dolce, che ci procuriamo sciogliendo la neve».
Com’è la sua vita nella base?
«Io sto studiando sismologia, i terremoti, e geomagnetismo, il campo magnetico terrestre. Ma ognuno di noi si occupa anche degli aspetti inerenti la vita in comunità, come le pulizie e la gestione dei rifiuti. In più, dobbiamo esercitarci per fronteggiare le emergenze, come un incendio o il soccorso di un infortunato: abbiamo persino una sala operatoria. La nostra quotidianità, comunque, varia a seconda della stagione».
In che senso?
«Da novembre a fine gennaio è estate: il sole non tramonta mai, la temperatura si aggira attorno ai -35 gradi e nella base ci sono quasi una sessantina di persone. Questo è il solo periodo dell’anno il cui siamo raggiungibili».
Poi inizia l’isolamento?
«Sì, a fine gennaio scendono le temperature e inizia l’inverno. Da questo momento in base rimaniamo in 13: un cuoco, quattro ricercatori e un responsabile delle telecomunicazioni, arruolati sotto il cappello del Pnra, poi sei ricercatori dell’Institut polaire francese e un medico della European Space Agency, l’Esa. Per nove mesi saremo le persone più isolate al mondo. Nessuno se ne va, nessuno arriva. Con noi solo la luce delle stelle a riflettere sul bianco candido dell’Altopiano. Non so spiegare l’emozione quando, a novembre, atterrerà di nuovo l’aereo».
Nel frattempo, non è facile gestire le relazioni interpersonali.
«Siamo stati selezionati per le competenze tecniche ma anche per la nostra attitudine psicologica ad affrontare un’esperienza di questo tipo. Inoltre, siamo stati preparati a gestire i conflitti interpersonali e le problematiche legate al confinamento. Detto ciò, spesso gli sforzi per essere tolleranti risultano insufficienti».
Qual è la sua strategia?
«Curare il tempo libero. Mi sto dedicando alla scrittura del mio primo romanzo e pratico yoga, una disciplina psicofisica per me fondamentale: mi tiene in forma, mi fa soppesare i problemi nel modo giusto e mi riporta ogni giorno a un punto zero, nel quale eventuali pensieri negativi e rancori sono cancellati. Alcuni colleghi vanno a rilassarsi nel nostro inusuale orto, distesi su una striscia di erba sintetica ad ascoltare il cinguettio degli uccelli diffuso dalle casse bluetooth».
Concordia è un laboratorio unico per gli studi di simulazione di sopravvivenza?
«Diciamo che è il posto sulla Terra che più somiglia a una base situata in un altro pianeta. Per questo motivo l’Agenzia spaziale europea sponsorizza il lavoro del medico che è parte del team e che ci studia per capire come il corpo umano si adatta a un ambiente extraterrestre».
Sui social un algoritmo suggerisce ai freddolosi un video in cui lei mostra come si veste.
«Per la prima volta abbiamo una connessione Internet satellitare a banda larga. Così ho iniziato a creare dei contenuti per il mio account Instagram e TikTok. Il video in cui svelo quanti strati occorrono per affrontare i -90 gradi di temperatura percepita, -74 registrati, ha raggiunto milioni di visualizzazioni».
Una cosa emozionante di questo suo inverno?
«L’inverno qui è un periodo di forte connessione con la natura. Una connessione che può divenire talmente intensa da far percepire la vita negli oggetti che si ritenevano inanimati come le stelle, la luna e i pianeti, unici compagni nel buio gelido della sterminata e inerte pianura di neve».
Cosa farà al suo ritorno, a novembre?
«Nell’altopiano antartico non ci sono virus e non proliferano nemmeno i batteri, per cui il sistema immunitario è tranquillo e rilassato. Per precauzione, preferisco ridestarlo gradualmente, perciò trascorrerò qualche settimana nelle campagne della Nuova Zelanda.
Festeggerò il Natale in Sardegna, e a gennaio partirò per il sud dell’India dove ogni anno pratico yoga con il mio maestro. Poi credo che andrò in Thailandia, forse in Nepal».
È vero che questo posto genera un’irresistibile nostalgia?
«Sono tornato per la terza volta anche a causa del mal d’Antartide».
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