Il Messaggero, 5 agosto 2024
I primo 60 anni di Carolt Alt
Tutte, negli anni Ottanta, volevano essere Carol. La madre di ogni supermodella: prima di Naomi e di Cindy, di Linda e di Christy, c’era lei, Carol Alt. Alta, mora, gli occhi da gatta, più di 500 copertine in un decennio, prima modella a prodursi (in proprio) calendari e poster, prima indossatrice a rompere il tabù della passerella tentando anche la strada del cinema. Scoperta come nei film a 18 anni, mentre lavorava come cameriera in un ristorante di New York, è stata l’Italia a darle il passaporto da attrice, rendendola protagonista di 11 pellicole per il cinema tra il 1987 e il 1993. Oggi di anni ne ha 63: vive ancora a New York, ha un’Instagram affollatissimo di primi piani e ricette e una chiacchierata pagina su OnlyFans aperta nel 2023. Alle 6.30 del mattino è già in piedi (è una salutista convinta) e ha le idee chiarissime sull’estate più indimenticabile della sua vita: correva l’anno 1987, e stava girando il film che le avrebbe cambiato la vita, I miei primi quarant’anni di Carlo Vanzina.Che estate fu, quella del 1987?«Per la prima volta nella mia carriera giravo un film in cui ero in ogni scena. Lavoravamo sei giorni a settimana, su e giù per l’Italia e anche fuori. Ma ero giovane e piena di energia, non sentivo la fatica».Perché fu speciale?«Innanzitutto perché imparai a viaggiare: quando fai la modella vedi un posto, sfili e te ne vai. Girando un film è diverso. Con Vanzina ho visto Barcellona, Montecarlo, ho scoperto la Sardegna e Roma. Ho imparato tanto sull’Italia e sugli italiani».Cosa, per esempio?«Come decorare la casa: ho copiato tantissime idee. Il camino in rame che ho nella mia fattoria l’ho preso da una villa che vidi dal finestrino del treno, tra Roma e Milano. E poi ho scoperto il parmigiano con le pere: l’ho anche postato su Instagram, tra le mie ricette per gli antipasti. Prima di allora ero convinta che il parmigiano andasse solo sugli spaghetti. Ero così entusiasta che quando mi ha invitata l’ambasciata americana a Roma, ne ho portato un vassoio. Sono impazziti».Perché ha detto che quel film le ha cambiato la vita?«Lo capii un giorno, verso fine riprese. Io e Carlo avevamo poco tempo per confrontarci durante il set. Lavoravamo entrambi moltissimo. Una volta, finalmente, riuscimmo ad andare a cena insieme. Eravamo in ascensore, a Milano, all’hotel Savoy. Lui mi guardò e mi disse: “Sono settimane che guardo la tua faccia tutti i giorni attraverso la macchina da presa, e penso che sia la più bella e la più espressiva che abbia mai visto”. È stato un momento indimenticabile. Mi sono sentita promossa come attrice, nonostante fossi una modella. E pensare che all’inizio non avrei dovuto farlo io, il film».Perché?«Marina Ripa di Meana (il film è ispirato alla sua vita, ndr) voleva che la interpretasse Raquel Welch. Carlo invece voleva me. Mi chiamò per offrirmi il ruolo, ma prima avrei dovuto incontrare Marina». E come andò?«Ci siamo viste in Piazza di Spagna. Nel pomeriggio mi ha telefonato Carlo e mi ha detto: “Non so che le hai fatto, perché ora vuole te e non Raquel”.Che le aveva detto?«Le avevo chiesto della sua vita. Forse nessuno aveva mai cercato di capire la persona dietro al personaggio. Quando uscì il film dissero che non le era piaciuto, pubblicarono una foto di lei con gli occhi al cielo. Ma era una trovata pubblicitaria».Come cambiò la sua carriera?«In Via Montenapoleone ero una fra le tante, qui ero l’unica: portavo l’intero film sulle mie spalle. Interpretavo Marina dai 15 ai 40 anni, attraversando intere epoche della moda. Quell’estate ho capito quale fosse la mia abilità: avevo il talento di interpretare i costumi che indossavo. Per me il personaggio non era solo il trucco o i capelli, ma anche e soprattutto il guardaroba». Ricorda un vestito in particolare?«Un abito bellissimo, verde smeraldo, con un cappello magnifico: lo indossavo in una scena in Sardegna. Dato che era stato fatto su misura per me, e che come modella non succedeva mai che mi potessi tenere gli abiti delle collezioni, volevo fare un’offerta al costumista e portarmelo via. Ma in quella scena dovevo essere buttata in piscina: quando ho asciugato il vestito si era rimpicciolito così tanto che non mi entrava più. Distrutto».C’era un tabù, al tempo, sulle modelle al cinema?«Certo. Negli anni Ottanta ti dicevano che le modelle non potevano recitare. Io avevo iniziato con Bob Fosse (in Sweet Charity, ndr), ma non fu una grande esperienza: non era la parte giusta. Però mi servì a capire che avrei dovuto studiare. Ho assunto un coach e a volte tutto il compenso che prendevo per un film lo davo a lui. Ma ne è valsa la pena. In quell’ascensore, sul set dei Miei primi quarant’anni, grazie a Carlo ho messo a tacere per sempre le vocine dentro di me che dicevano che non ce l’avrei fatta. Fu una rivelazione».Da allora ha smesso di dover dimostrare qualcosa?«Mi è rimasto il problema dell’immagine. Il pubblico e i registi mi hanno sempre voluta bella o sexy: fai un’alcolista? Sì, ma deve essere bella. A volte mi è andata bene. Per esempio, per Il vizio di vivere, (film tv del 1988, ndr) Dino Risi mi disse che mi aveva voluta perché serviva un’attrice dalla grande bellezza. Si figuri che si era proposta per la parte anche Meryl Streep».Il complimento più bello che le hanno fatto?«Quando il montatore di Il grande fuoco (fiction Mediaset del 1995, ndr) mi disse: “Ti si taglia come burro”. Fuori dall’ambiente suona inquietante, ma in sala di montaggio significa che le mie scene sono omogenee, a recitazione naturale. E ne avevo 900».Oggi ha ancora una sfida da superare?«Quando hai 60 anni, la sfida è provare al mondo che sei ancora bella. Se ne è parlato quando ho aperto il profilo OnlyFans: ho ottenuto quello che volevo, perché adesso tante donne si sentono autorizzate a farlo. Non c’è niente di male a sentirsi sexy e belle anche dopo i cinquanta. Sono felice di come sono oggi: i miei primi sessant’anni sono stati magnifici».