La Stampa, 5 agosto 2024
La scuola della Garfagnana dove la maestra libera dalla schiavitù dell’ignoranza
Questa è una storia d’Appennino, e dell’Appennino è una storia di Garfagnana, la valle del Serchio sigillata tra l’Appennino e l’Alpe Apuana. Per noi di qua dal gioco apuano, apui di Val di Magra assoggettati all’impero di Roma, che calchiamo sotto i piedi la SS 1, la via del console Aurelio che da Roma porta nel mondo, e solo per questo ci sentiamo appartenuti dalla contemporaneità e quasi domestici, noi che siamo così mondani da comparire persino nelle Ceneri di Gramsci, «dalle sue palpebre chiuse Luni all’addiaccio…», ecco, per noi la Garfagnana è il luogo dell’Altrove. Lo è anche se è solo di là dalla montagna che ci guarda le spalle, ora e ci si arriva in automobile in un amen come quando da ragazzi ci si avventurava in Vespa arrancando sulla Spolverina, la strada che a piedi facevano i nostri nonni per andare a lavorare le cave di marmo che dirupavano su Campocecina. Là vivono i nostri cugini silvestri, gli apui che all’impero non si sono mai dati, che ancora se ne vanno in giro con il mito guerresco del pennato alla cinta, che ancora conoscono parole dell’antica e indecifrata lingua; e riti di deità boschive ignoti persino a James Frazer, e canzoni ancestrali cantate in maggi a suon di ottonari, campi sottratti a gole e vallette che diresti sterili eppure custodiscono la semenza del formentone a otto file, il seme del dio Maiz dei nativi incaici, selve di castagni pluricentenari ancora regolate da usi comuni sanciti da bolle di cui non si conosce più l’età. E tutto questo dà loro poteri a noi preclusi, poteri che consentono loro la potestà di essere in questo mondo ma non di questo mondo, di fare di quella vallata di indiscutibile miseria la regale residenza di nobiltà ribelle a qualsivoglia età e epoca e potere. Si dice che siano cristiani questi nostri umbratili cugini, e in effetti hanno chiese, santi e preti. Ma le loro chiese sono pievi erette dalla plebe già in età longobarda e della plebe proprietà; quelle erette sui crinali hanno l’aspetto di fortezze e questo erano, rifugio, casa comune e comune magazzino, luogo della parola, ospitale, che potessero tenere al sicuro tutto ciò che tenevano per sacro.Il loro santo primevo è San Pellegrino, il santo di infinite leggende, ubiquo e magmatico miracolante quanto è lungo l’Appennino; la sua casa è nel valico più alto della valle, e lì giace tutto ossa e ori in un’urna di cristallo, così che si possa vedere che il suo popolo gli ha concesso di starsene per sempre assieme ad un altro uomo, un certo san Bianco, vallo a sapere chi fosse mai. Ma siccome i garfagnini sono fatti per contraddire l’ovvietà anche più sacramentata, a San Pellegrino si è celebrato per lungo tempo, e per quello che so tuttora, la MotoMessa, la messa dei motociclisti in sella che accorrono a centinaia per servirla a motore acceso e spiegamento di clacson per coro; il celebrante un prete che ha corso diverse edizioni della Parigi Dakar. Intanto, a Sillico, a Sassi, celebra l’eremita frère Benoît, ora parla correntemente il garfagnino, professore di antropologia alla Sorbone, l’ultimo della famiglia dei Plantageneti, che ha portato con sé dalle sue origini solo l’essenziale, la sua immensa cultura, le sue amicizie straordinarie nel mondo musicale europeo, così che in quelle pievi si svolgono a esclusivo beneficio dei plebani stagioni musicali e di approfondimento culturale che nel nostro mondo di qui se le sognano, forse, le grandi città.Questo è l’Altrove, e l’altrove è un rilievo di granito, da qualche secolo appiccicato nel lato d’ombra della chiesa di Careggine ma di età plurimillenaria, che mostra due figure danzanti intreccianti le mani intanto che brandiscono lancia e coltello; le figure hanno inequivoci l’una attributi maschili, l’altra femminili. E questo, come quasi tutto il resto di Garfagnana, noi di qui non lo si sa spiegare, se non aderendo a un’altra storia, una storia difforme dalla dominante, una realtà incongrua ma così colma di verità da farsi leggenda. Non che la Garfagnana si sia sottratta alla nostra storia quando lo ha ritenuto necessario alla sopravvivenza della sua, ma lo ha fatto con selvaggia astuzia e intelligenza strategica. Infatti è singolarmente terra estense nel mezzo della Toscana; dovendo al quieto vivere il pegno di una signoria da omaggiare, si sono scelti i lontani e placidi duchi d’Este piuttosto che gli avidi e ingombranti Medici o Castracani. Gli Este si contentavano di avere un lembo di ducato oltr’Appennino, sistemarci un governatore che si contentasse di quel poco che la valle offriva per il sostentamento, un incarico di fatto punitivo che toccò anche al poco affidabile e assai probabilmente seduttore di duchesse Ludovico Ariosto, e ricevere adeguato tributo. Il tributo garfagnino si compendiava nella consegna annuale di un orso, preferibilmente domesticato s’intende; una cosuccia piuttosto allusiva, e ancora oggi per indicare un impegno da assolvere nonostante la sua palese insensatezza pratica, i garfagnini dicono “menare l’orso a Modena”.A proposito dei letterati, non è per niente un caso che Dante Alighieri, che volentieri ha accettato l’ospitalità di noi di qua della Val di Magra, «se novella vera di Val di Magra o di parte vicina dillo a me che sì grande là era», pur disdegnando il nostro pane che trovava troppo salato, ecco, lui che ha vagato inesausto per le lande d’Italia, in Garfagnana non ci ha mai messo piede, garantendone la clandestinità in sovrappiù all’alterità. S’è azzardato a dare un’occhiata dalla parte del mare alle vette apuane più alte e dure, la Pania della Croce e la Tambura, abbastanza inumane da schiaffarle nel 32° dell’Inferno, di là da quei bastioni aveva astutamente considerato che era meglio non rischiare, anche perché gli deve pur essere giunta voce che lì il pane era poco, salato o sciapo che fosse, e il nutrimento corrente era fatto di neccio, polenta di castagne per colazione, pranzo e cena. L’Oms ha a suo tempo stabilito, cercando alimenti a basso costo, che la polenta di castagna è purtroppo digeribile solo dai garfagnini e dai corsi, e più altrove di questo non saprei dire; e a ragion veduta perché, nelle ristrette temperie delle nostre altalenanti fortune di contemporanei, anche noi di qui abbiamo provato a nutrircene, e so cos’è la polenta di castagne giù nello stomaco, una sorta di certificazione antisismica.Tutto ciò, e tutto l’altro che qui non sa starci, è per me compendiato in un’immagine, in una figura, nella sua storia. Il Ponte di Campia sul Serchio è la ristretta porta di accesso alla Garfagnana dalla Lucchesia; sempre a proposito di lettere, al Ponte è associata un’osteria, nella rimessa di quell’osteria è ancora arrembato il calesse che portava Giovanni Pascoli a giocare a carte e a bere, a bere molto del vino detto striscino per le sue caratteristiche invalidanti, con i suoi amici, tra loro il padre di Valentino vestito di nuovo come le brocche dei biancospini.Sulla spalletta di quel ponte il 20 aprile del 1945 è poggiata una ragazza, la ragazza imbraccia una fisarmonica e la sta suonando, suona un tango, la Comparsita, l’unica musica che le sembra adatta alla circostanza. La circostanza è un drappello di ragazzi in armi e divisa che si fa avanti con circospezione, la musica li sorprende e li incoraggia, uno tra loro si leva l’elmetto e lo sventola in aria provando due passi di danza. Quei ragazzi sono il contingente di volontari brasiliani e hanno appena capito di aver liberato la Garfagnana.La ragazza si chiama Duse, la sua famiglia è amante del teatro, e da allora per quasi cent’anni prima che un paio di settimane fa se ne andasse là dove sa lei, non ha mai smesso di suonare la sua fisarmonica e di cantare uno sterminato catalogo. Ma la Duse non è solo questo, è un’altra cosa, è una maestra, è la maestra, e ha esercitato fino all’ultimo dei suoi giorni per i figli dei figli dei figli dei suoi primi alunni. Gli alunni dell’anno scolastico 1947/48. E questa è ancora un’immagine. La Duse che si presenta dal provveditore per ricevere l’incarico, ha vent’anni, il provveditore ispeziona con attenzione le sue mani, vuole sincerarsi che non abbia le unghie lunghe alla moda, constata che le unghie sono ben corte e le mani ben robuste e le consegna il corredo da maestra di montagna, uno zaino, delle razioni militari da combattimento, le razioni K, una lampada ad acetilene, un laccio emostatico e una lama affilata nel caso di un morso di vipera, e la spedisce alla sua sede, a Capraia, mille metri, case di boscaioli e pastori di capre, la scuola è una stalla riabilitata, una stanza a piano terra per aula e una da raggiungere con una scala a pioli per alloggio, una stufa a legna per scaldare e cucinare. E di lì in poi ogni lunedì mattina la Duse sale a buio con la sua lanterna da minatore i settecento metri di dislivello, fa il suo lavoro e il sabato pomeriggio se ne scende a casa per cominciare daccapo il lunedì. A insegnare e a imparare; dice la Duse di quel tempo che è stato quello dove ha imparato di più e più cose, e gli insegnanti erano i suoi alunni, che le hanno disvelato le infinite saggezze di chi conosce poco o niente dell’esistenza stessa dei libri, ma tutto dell’universo vivente. Spartiva il suo cibo con loro e loro ricambiavano con il dono di fiori mai visti. Ma deve aver anche insegnato molto, perché Capraia è ormai quasi disabitata, ma molti dei suoi alunni se non loro stessi hanno dato alla luce generazioni di uomini e donne sono sparse per il mondo a far cose buone e importanti. E sì, lei ha suonato la Comparsita per la liberazione della sua valle, ma lei stessa è stata una liberatrice, la partigiana della seconda liberazione, quella dalla schiavitù dell’ignoranza.La Repubblica è stata anche questo, la brigata di migliaia di maestri ancora ragazzi mandati a popolare di scuola ogni anfratto di miseria del Paese, forse ricordarlo servirebbe, adesso che ce ne sarebbe di nuovo la necessità impellente. Intanto l’Altrove di Garfagnana ha un suo santo in più, uno dei suoi santi difformi, questa una santa fisarmonicista miracolante.—