Corriere della Sera, 5 agosto 2024
Pupi Avati: per la prima volta ho girato in bianco e nero. Un film (anche d’amore) alla Hitchcock pieno di citazioni
Fa caldo ma Pupi Avati diffonde nell’aria la brezza della sua cultura umanistica, la sua amabile ironia increspata d’inquietudine, l’aria spessa e leggera di chi le ha viste tutte nel giardino che coltiva da 54 anni: il cinema. Sarà lui a chiudere la Mostra di Venezia, il film è L’orto americano , dal romanzo pubblicato per Solferino.Un thriller gotico, horror, genere da lei frequentato.
«Dire horror svilisce sempre un po’, qui ci sono delle implicazioni psichiatriche. E c’è anche una grande storia d’amore. Ecco la trama. A Bologna, durante la Liberazione, succede qualcosa che ha a che fare con l’improbabile. Un ragazzo con dei problemi (Filippo Scotti), che parla con i morti attraverso le loro foto, aspira a diventare romanziere. Un giorno incontra una splendida nurse americana, in uniforme (la modella svedese Mildred Gustafsson) e intuisce che la vita lo sta risarcendo perché quella sarà la persona che aspettava da sempre. Il caso vuole che negli Usa, nel Mid West, per uno scambio di case come si fanno anche oggi, a pochi passi da lui senta delle urla pazzesche di una donna anziana, alle pareti ci sono foto della sua figlia non più tornata: la nurse. E si illude che non sia morta. Io ho il culto dei morti, nel mio computer ho 250 foto di parenti e amici che non ci sono più. Sono le mie preghiere serali, leggo quei nomi, il mio rosario dei morti».
Ha girato in bianco e nero.
«Ed è la prima volta. Ha un enorme potere evocativo, tanto che mi sarà difficile tornare al colore, certi capolavori del neorealismo, penso a Ladri di biciclette, a colori sarebbero deludenti. Il film è pieno di citazioni, credo di avere avuto la possibilità di fare un film alla Hitchcock. Ho constatato che la cultura contadina emiliana è intrisa della stessa religiosità dell’America rurale».
A Venezia quante volte?
«Dieci. Dico sempre che quando al Lido si scende dal vaporetto si diventa più cattivi. Vale anche per me. È la competitività. Ora questo sentimento negativo non lo nutro, essendo fuori gara. A 85 anni mi lusinga andare a Venezia, significa che sono ancora in piedi».
Ma se sforna un film dopo l’altro…
«In effetti ho appena finito due docu-film: uno sull’ultimo Natale di Benedetto Croce, l’altro sui 100 anni della radio attraverso una famiglia romana. Io la sento in auto, e una volta al mese quando mia sorella, molto religiosa, mi ricorda di sintonizzarmi col santuario di Medjugorje».
Ho il culto dei morti, nel mio computer ho 250 foto di parenti e amici che non ci sono più: leggo quei nomi, le mie preghiere serali, il mio rosario
I festival possono aiutare le sale sempre più deserte?
«Sì se non si trasformano in una sfilata di moda sul tappeto rosso. Sono diventati come Sanremo, dove film e canzoni sono solo un elemento ma non quello centrale. Siamo all’anno zero del cinema italiano, al 4 percento del mercato, e con dei costi assurdi. Il tax credit favorisce le major e va ridimensionato. Ci rimettono le piccole produzioni come la mia. Io continuo a fare film a basso costo, questo, girato anche in America, è costato 3 milioni. E con mio fratello Antonio siamo pieni di debiti. Bisognerebbe tornare a costi ridotti per esprimere creatività, lavorando come nel dopoguerra. Per superare la disaffezione va incoraggiata la monosala, come ha fatto Farinelli a Bologna. I biglietti ridotti quest’estate sono un grande flop».
A Venezia è stato giurato.
«Sia lì che a Cannes, con Clint Eastwood presidente e Deneuve vice. Premiammo Pulp Fiction, Tarantino era un illustre sconosciuto. Una reporter di Libération mi avvertì: sappi che ogni giurato non premierà il suo Paese. Mi spesi per dare il premio della regia a Caro diario di Nanni Moretti e a Virna Lisi per La regina Margot, dove la regina era Isabelle Adjani. Mi dissi: ora torno in Italia e tutti mi ringrazieranno. Invece niente».
Al Lido non ha mai vinto.
«Solo premio speciale per i valori tecnici a Noi 3. Ma ho dato la possibilità di vincere a due attori, Silvio Orlando e Carlo Delle Piane, che si impose quando tutti pensavano che avrebbe vinto l’altro protagonista, Walter Chiari. Feci un film su questo, Festival».
Lei è il consulente culturale di Forza Italia.
«Tajani è sempre in giro. È la persona più apprezzabile di quello schieramento ma è un incarico così, nessuno mi chiede niente. L’unica cosa che ha funzionato è proiettare il mio film su Dante negli 83 istituti di cultura nel mondo. Mi piacerebbe che uno dei tre canali Rai, sganciato dalla pubblicità, promuovesse solo cultura. Sono stato a lungo docente di cinema e agli studenti quando chiedevo di De Sica pensavano a Christian, ignorando totalmente l’esistenza di Vittorio».
Sono il regista vivente che ha fatto più film in Italia non com-merciali ma provvisti di un senso: se qualcuno se ne accor-gesse non mi dispia-cerebbe
Rimpianti?
«Credo di essere il regista vivente che ha fatto più film in Italia, alcuni più belli altri più brutti. Non commerciali, ma provvisti di un senso. Se qualcuno se ne accorgesse non mi dispiacerebbe».