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 2024  agosto 05 Lunedì calendario

Intervista a Remo Gironi


L’esordio da attore applaudito avvenne da bambino, per gli spettacoli che si divertiva a interpretare nel teatrino della sua scuola ad Asmara, in Eritrea dov’è nato nel 1948. 
«In realtà, i primi spettacolini che mi proponevano di fare erano delle operette: non perché cantassi molto bene, ma recitavo bene – racconta l’attore Remo Girone —. Ho cominciato in quinta elementare nella messinscena intitolata “Do di petto”, interpretavo il garzone di una trattoria di campagna dove si esibiva il figlio del proprietario che sognava di diventare un famoso tenore e tutti i clienti gli chiedevano di intonare il “do di petto”. Però, alla fine, diventavo più famoso io, che vestivo il ruolo di uno scugnizzo. Ho poi continuato a recitare in successive occasioni, anche nella filodrammatica universitaria quando frequentavo la facoltà di Economia e commercio. E, in un’altra mia apparizione in palcoscenico, il critico di un giornale italiano in Eritrea scrisse: tenete d’occhio quel ragazzo, diventerà un grande attore!». 
Come mai è nato e cresciuto ad Asmara? 
«Perché mia madre, Alfa Maria, era emiliana ma figlia di emigranti e, a metà degli anni Trenta, conobbe mio padre Rolando quando lui arrivò in Eritrea con l’esercito italiano... e l’amore sbocciò». 
Vi trovavate bene in Africa da emigrati? 
«Assolutamente sì e aggiungo un particolare: circolava molto razzismo da parte dei bianchi italiani, nei confronti dei neri africani». 
Eravate ospiti in un Paese che vi accoglieva ed eravate razzisti? 
«Preciso subito: la mia famiglia non era razzista, però indubbiamente la vita degli italiani, da benestanti, era decisamente migliore di quella dei nativi». 
Da dove nasce la sua passione attoriale? 
«Non ho ascendenze artistiche: mamma era casalinga, papà da giovane aveva fatto un po’ il pugile e il ciclista, aveva senso dell’avventura ma, dopo la caduta del fascismo, aveva aperto un’officina meccanica ad Asmara. La passione nasce dal cinema: sin da piccolo mi ci portavano spesso e i grandi attori mi facevano sognare». 
Dalla filodrammatica ad Asmara all’Accademia Silvio d’Amico a Roma: un balzo notevole. 
«Ero venuto in Italia a 22 anni perché l’università che frequentavo ad Asmara non permetteva di concludere il corso di studi. Quindi andai direttamente a quella di Bari, ma avevo già in mente di tentare il provino alla Silvio d’Amico. All’ultimo esame di economia presi un 19 stiracchiato e la tesi mi è sfuggita di mano. Mentre invece superai la prova all’Accademia». 
I suoi genitori erano contenti del figlio non più economista, bensì attore? 
«Non mi hanno mai impedito di compiere questa scelta. Mia madre si limitava a ripetermi che il pezzo di carta era importante. La laurea non l’ho mai presa, tuttavia, intorno ai 40 anni, ne ho ricevuto una honoris causa a Roma, alla “Università per tutte le età” ed ero in buona compagnia, insieme a Giuliano Gemma e Peppino Rotunno: incorniciai l’attestato e lo feci vedere ai genitori... mamma ne fu contenta». 
Inizia il percorso in palcoscenico con grandi maestri, da Luca Ronconi a Peter Stein. La svolta mediatica è con Tano Cariddi nella «Piovra». Un personaggio negativo, ma amato dal pubblico. 
«Tano nasce povero in una società difficile e l’unica strada che conosce è quella della cattiveria, è un lupo tra i lupi, e alla fine risulta in qualche modo non simpatico, ma giustificato. In fondo aveva una sua umanità e il pubblico lo aspettava al varco, proprio nei suoi cedimenti umani... però poi si ripigliava e ridiventava malvagio. E comunque, mi lasci dire: forse era tanto apprezzato perché lo interpretavo bene». 
E veniva fermato per strada dai suoi ammiratori, per firmare autografi: chissà quante volte... 
«Tra i tanti spettatori che mi riconoscevano, fui sorpreso da un fan molto particolare. Mi trovavo a Nizza con amici, andammo insieme in una chiesa che accoglieva i poveri, per fare beneficenza. Un clochard mi guarda e mi dice: io ti conosco, sei un attore, quello della Piovra. Inevitabile la battuta degli amici: sei famosissimo pure tra i barboni!». 
Questi riconoscimenti da parte del pubblico, aumentano l’ego di un attore? 
«Il mio ego ha alti e bassi, in certi casi è ipertrofico, in altri non esiste, non c’è una via di mezzo. Di solito tendo a ridimensionare le cose che ho fatto, mi sento fortunato per il mestiere che svolgo, ma sono consapevole che, in certi casi, sono stato all’altezza, in altri no. D’altronde, persino il mitico Marlon Brando in un’intervista arrivò ad affermare che il suo cane recitava meglio di lui». 
Personaggi come Cariddi, che ottengono tanto successo, possono creare emulazione da parte dei giovani spettatori? 
L’infanzia in Eritrea 
Sono nato e cresciuto ad Asmara. C’era molto razzismo da parte degli italiani nei confronti dei neri africani, fortunatamente non nella mia famiglia 
«Oddio, il rischio ci può essere, se però quei giovani sono già incamminati su quella strada sbagliata... Conoscevo un avvocato, non giovanissimo, che certamente non era un mafioso, ma prendeva appunti sulle mie battute e le utilizzava quando faceva riunioni di lavoro, affermando: come direbbe Tano Cariddi...». 
Nella realtà, ha mai pensato a un uomo che potesse somigliare a Cariddi? 
«Ce n’erano, e ce ne sono, tanti come lui: con “La piovra” era prima volta che in uno sceneggiato si affrontava il problema della mafia dei colletti bianchi. Comunque, impersonandolo, non mi sono ispirato a persone reali, semmai ho cercato di entrare nella mente di un tipo del genere, non fare finta di esserlo, esserlo davvero, per risultare credibile». 
Durante le riprese della fiction, lei è stato colpito da un tumore, non per finta, ma davvero... 
«Lavorare e combattere con la malattia non è stato facile. Dopo essermi operato, dovevo fare della chemioterapia e i produttori della fiction volevano interrompere il contratto, sostituendomi con un altro personaggio simile. Andai a reclamare, accompagnato dal mio avvocato, ma poi fu mia moglie a sfornare una brillante idea. Siccome stavamo girando la nona serie, propose al regista di farmela chiudere in anticipo con una bellissima scena e di riprendermi nel cast per la decima serie, dopo aver terminato le mie cure. Così è stato: il tumore guarito e Tano Cariddi di nuovo in pista. Aggiungo che, in un altro momento del mio percorso, sono pure caduto in depressione». 
A cosa fu dovuta? 
«Ero stato scelto da Luca Ronconi per fare un suo spettacolo. Avevo già lavorato con lui, ma mi resi conto che non ero adatto al ruolo che mi proponeva, non ce la facevo e il regista mi sostituì. Mi crollò il mondo addosso, pensavo di aver sbagliato tutto nella mia vita. Per curarmi, ho fatto psicoanalisi per anni, mi sono imbottito di psicofarmaci, la depressione andava e veniva, finché mi capita di interpretare un personaggio nel tv-movie “La brace dei Biassoli”, tratto dal romanzo omonimo e autobiografico dello psichiatra e scrittore Mario Tobino. Victoria colse al balzo l’occasione, gli telefonò e prese un appuntamento per me, ho trascorso un pomeriggio intero con lui, parlammo a lungo e alla fine della sua analisi sentenziò: smettila di prendere psicofarmaci così pesanti, ti distruggono la personalità e non andare più dall’analista... puoi farcela da solo. E aveva ragione, così è stato». 
L’attrice Victoria Zinny, una compagna di vita davvero importante, una complice e consigliera preziosa. 
«Siamo sposati da quasi 50 anni». 
Mezzo secolo: mai una lite? 
«Certo che sì... a volte furibonde soprattutto nei primi tempi di convivenza. Ci lasciavamo per un periodo, poi tornavamo a vivere insieme, non potevamo stare lontani. E una volta ci siamo pure ubriacati». 
Quando? 
«Victoria mi aveva accompagnato a Los Angeles, per il set del film scritto, diretto e interpretato da Ben Affleck, “La legge della notte”, dove io avevo un ruolo. Per festeggiare la fine riprese, il regista mi regalò una bottiglia di whisky molto costosa e preziosa, ma per ovvi motivi non l’avrei potuta infilare nel bagaglio alla ripartenza per l’Italia e allora... ce la siamo scolata in un solo giorno, ci dispiaceva tanto lasciarla in hotel». 
Perché avete celebrato il matrimonio due volte? 
«La prima volta lo abbiamo fatto civilmente, la seconda molti anni dopo in chiesa. Victoria ha usato lo stesso abito, molto bello, entrambe le volte. Solo che lei se l’è potuto permettere, non avendo cambiato la taglia... io la seconda volta ero talmente ingrassato che non mi entrava nemmeno una gamba nei pantaloni!». 
Ora sta interpretando, in teatro, un altro genere di personaggio, assolutamente positivo: Wiesenthal, il cacciatore di nazisti. Come si è preparato? 
«Innanzitutto ho studiato attentamente la storia di questo ebreo agguerrito, sopravvissuto ai campi di sterminio, che ebbe il coraggio di andare a scovare tutti i nazisti per farli processare, e ho imparato tante cose che non sapevo. Inoltre, mi sono ricordato di un amico ebreo di mio padre, che bazzicava spesso casa nostra ad Asmara: giocavano a carte insieme. Io frequentavo gli ultimi anni del liceo e, con quel signore distinto, facevamo lunghe chiacchierate: mi raccontava come era riuscito a scampare ai lager... Ripensare a lui, mi è servito per arricchire la mia interpretazione di Wiesenthal». 
Con Victoria trascorrete più tempo a Montecarlo, nel Principato di Monaco, che a Roma. Perché? 
«Sì, stiamo invecchiando più là che qua, per un motivo molto semplice: funziona molto bene il sistema sanitario ed essendo noi in età avanzata... però le tasse le pago in Italia!». 
Ci tiene a specificarlo per tranquillizzare il Fisco? 
Ronconi e la depressione 
Mi scelse per un suo spettacolo, avevamo già lavorato insieme. Mi resi conto però che non ce la facevo a fare ciò che lui mi chiedeva. Mi crollò il mondo addosso 
«No, lo affermo perché è vero: non sono un evasore che porta i soldi all’estero».