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 2024  agosto 05 Lunedì calendario

Intervista al cardiochirurgo Francesco Musumeci

Camice, guanti e mascherina, certo.Prima di operare però Francesco Musumeci calza anche un visore sugli occhi. «Proietta la ricostruzione tridimensionale del cuore della paziente sul torace. Vedere l’ologramma prima dell’intervento aiuta i miei strumenti a trovare la via d’accesso migliore». Palermitano, 71 anni, a gennaio il cardiochirurgo ha effettuato all’Ismett – Istituto mediterraneo per i trapianti e le terapie ad alta specializzazione del capoluogo siciliano – il primo intervento al cuore con la realtà aumentata. «Potrei finalmente godermi la pensione o pensare al guadagno in qualche struttura privata del Nord. Invece sono tornato nella mia città natale. Continuo ad avere nuove idee e progetti», sorride.Quali?«La realtà aumentata per esempio.Dalle immagini Tac il computer ricostruisce il cuore del paziente e crea poi un ologramma in tre dimensioni. Il chirurgo può così simulare in anticipo l’intervento, mentre i giovani avranno un grande vantaggio nell’imparare. Grazie alla realtà aumentata potranno in parte supplire a quell’esperienza che richiede anni per essere costruita».Lei è stato anche fra i primi a usare il robot in sala operatoria in Italia?«La cardiochirurgia robotica ha mosso i primi passi con difficoltà all’inizio degli anni Duemila. Io ne sono stato da subito affascinato, ero convinto che avrebbe avuto un futuro. Ho fatto un breve periodo di training in America, a New York, con un chirurgo che era stato mio aiuto in Gran Bretagna. Poi nel 2011 a Roma ho iniziato il programma di cardiochirurgia robotica, uno dei primi in Europa, per la valvola mitrale. Da alcuni anni l’uso del robot si è esteso anche ad altri interventi».Quali saranno i passi avanti di domani?«Chirurgia a distanza per operare, ad esempio, negli ospedali dove non ci sono le competenze per le malattie più complesse. L’unione tra realtà aumentata e intelligenza artificiale renderà possibile, in un futuro penso non lontano, operazioni eseguite dai robot in autonomia, come l’impiantodi valvole con un catetere».Non è un caso che la Tim nel 2019 le abbia chiesto di essere protagonista del suo spot sul 5G: durante le nozze di sua figlia la chiamano dall’ospedale e lei dal portale della chiesa, con un visore, opera una donna a distanza.«Mi chiamò a sorpresa Luigi Gubitosi, ad di Tim. Voleva un mio parere sullo spot ideato da Luca Josi, poi mi offrì il ruolo del protagonista. Ho avuto un momento di incertezza, perché non avevo mai recitato, ma è durato pochi istanti. Ho accettato con entusiasmo e ho scoperto un mondo che non conoscevo. Ancora mi commuovo, quando rivedo lo spot».Nella realtà le è mai capitata una scena simile?«Sì, 25 anni fa, durante il matrimonio di mio cognato sul lago di Garda sono dovuto tornare urgentemente a Roma per un trapianto di cuore. Il programma era stato appena avviato al San Camillo e io dovevo essere presente».Altri casi simili?«Ero a Trapani per le vacanze quando ci fu la chiamata per un nuovo trapianto. Il donatore era a Catania.Mi ci portò la polizia a sirene spiegate. Feci il prelievo e volai subito a Roma su un aereo privato. Mi presentai al San Camillo letteralmente col cuore in mano».Il suo è un mestiere avventuroso.«Negli anni ’80 lavoravo in Inghilterra, ma ci fu un cuore da prelevare a Parma. Lì mi fecero salire su un aereo monomotore a elica, il pilota avanti e io dietro. Mi misero il caschetto, e quando aggiunsero che dovevo indossare anche il paracadute rimasi di sasso. Il paesaggio all’imbrunire era spettacolare, ma io ero terrorizzato».Anche la scelta di lasciare Palermo dopo la laurea per la Gran Bretagna fu un’avventura.«Avevo scelto Medicina perché mio padre era dentista. Io ero destinato a seguire le sue orme. La chirurgia mi piacque subito. È concreta: una specialità che ti consente di intervenire in modo preciso e vederei risultati. Dopo la laurea volevo migliorare la mia formazione, così nel 1977 lasciai l’Italia. Il professore con cui mi ero laureato mi indirizzò a Liverpool da un collega cardiochirurgo pediatra. In quel momento è iniziata la mia storia in cardiochirurgia».Come fu partire da Palermo per la Gran Bretagna?«Non era facile come oggi. Allora pochissimi medici andavano all’estero. A Liverpool mi ritrovai in un residence per studenti del Commonwealth, con ragazzi da tutto il mondo. Era un contesto molto inusuale in quegli anni per chi veniva dall’Italia e io iniziavo a praticare una disciplina – la chirurgia delle malformazioni cardiache congenite – che stava muovendo i primi passi. Il mio inglese poi era modesto. Il professore un giorno mi disse: forse è meglio se comunichiamo in latino».Come fece il salto a Londra?«Noi palermitani siamo fatalisti. Una serie di coincidenze, o forse il destino, che io da cattolico leggo come interventi divini sotto forma di eventi all’apparenza casuali, hanno guidato la mia carriera. Davanti a me si sono aperte una dopo l’altra tante porte che mi hanno portato a lavorare con i cardiochirurghi migliori al mondo. Per diversi anni sono stato braccio destro del grande Sir Magdi Yacoub. Avevamo un’intesa perfetta. Potevamo eseguire un intero intervento senza scambiarci una parola. Niente “tira” o “lascia”, sapevamo esattamente cosa fare e quando. E dire che prima avevo sperato di lavorare in Sudafrica perché mi affascinavano gli animali».Come divenne primario?«La sanità gallese aveva deciso di aprire una cardiochirurgia pediatrica a Cardiff. Avevo 37 anni e sentivo il peso di quella responsabilità. Ho lavorato per anni con dedizione totale. Un giorno ho avuto un riconoscimento inaspettato: sono stato invitato a Downing Street come uno dei rappresentanti della sanità gallese per un ricevimento organizzato dal primo ministro JohnMajor. È facile immaginare l’invidia di tanti colleghi inglesi».Quanti interventi ha fatto?«A 15mila ho perso il conto. Ho operato da neonati prematuri a ultranovantenni. Nel 2018, una notte, sono stato chiamato per un intervento d’urgenza su Giorgio Napolitano. Il presidente della Repubblica aveva 93 anni. A quell’età in tanti centri, anche all’estero, non avrebbero neanche tentato. Ricordo poi Sammy Basso, il primo paziente al mondo con sindrome da invecchiamento precoce, una malattia genetica rarissima, ad avere l’impianto trans-catetere di una protesi della valvola aortica. Negli Stati Uniti avevano rifiutato di operarlo, invece il risultato fu eccellente».Ha scoperto perché il cuore per l’uomo è ritenuto la sede dell’anima?«Il cuore da sempre ha alimentato miti, leggende e miracoli. In tutte le dottrine mistiche è stato al centro delle emozioni e della vita.Probabilmente perché se il cuore si ferma la vita finisce, ed è un attimo.Oggi si parla sempre più di comunicazione tra cuore e cervello e sembra che i messaggi che il cuore manda al cervello influenzino percezioni e comportamenti».I suoi figli hanno ereditato il mestiere?«Nessuno dei tre. Oggi la professione di medico, pur restando affascinante, ha perso il riconoscimento sociale ed economico che aveva anni fa».Come mai ha scelto di tornare a Palermo?«A Palermo ci sono le mie radici e c’è mia madre che sta per compiere cento anni. Ma altrettanto importante è stato l’invito dell’Ismett, un centro di altissimo livello. La Sicilia sa essere una terra difficile e mi rendo conto che a Palermo non avrei mai ottenuto la mia carriera. Ora però sono contento di restituire quello che ho ricevuto.Ho accantonato diverse proposte ben remunerate al Nord perché credo che ci sia troppa attenzione al profitto. La sanità in alcune regioni è diventata un’attività imprenditoriale e io ho ancora tantissima passione per il mio lavoro».