la Repubblica, 5 agosto 2024
La strategia del fango contro Harris “Suo marito tradì la prima moglie”
NEW YORK – Una spruzzatina di fango, a insinuare che la candidata dem alla Casa Bianca Kamala Harris – e le persone a lei vicine – non sono poi così per bene. IlNew York Post,il tabloid della Grande Mela, proprietà del magnate conservatore Rupert Murdoch, prima ha rispolverato una lettera scritta nel 2019 a un giornale locale dal papà di uno stagista che lavorava con lei quando era procuratore generale, dove Harris è descritta come “bulla” che obbligava i collaboratori ad alzarsi in piedi al suo passaggio e a non guardarla negli occhi. Ora rimesta nella vecchia liaison dell’avvocato ebreo Doug Emhoff – che ha sposato Harris in seconde nozze – con la baby sitter che tanto contribuì alla fine del primo matrimonio con la prima moglie Kerstin Mackin.
La notizia, diffusa inizialmente dal quotidiano britannicoDaily Mail sabato e confermata dallo stesso Emhoff aCnn – è stata rilanciata ieri appunto dal New York Post con tanto di titolo di copertina «Non è un gentiluomo», giocato sulla qualifica istituzionale del Second Gentleman.
Il fattaccio è avvenuto nel 2008 (5 anni prima che Doug incontrasse Kamala) quando il primo matrimonio durato 16 anni era già in crisi. Per stessa ammissione del protagonista, la spinta finale all’unione fu effettivamente la relazione con Najen Neylor, all’epoca insegnante nella scuola elementare privata The Willows frequentata dai figli Ella e Cole, cui faceva anche da baby-sitter la sera. Secondo le rivelazioni, la ragazza restò incinta. Una gravidanza di cui non si seppe più niente e fu presumibilmente interrotta, anche se il tabloid lascia aperta la questione, giacché la giovane si licenziò. «Kerstin e io attraversammo un periodo difficile a causa delle mie azioni. Me ne assunsi la responsabilità e col tempo ci abbiamo lavorato sopra, uscendone più forti di prima» è stato l’unico commento di Emhoff. Di sicuro, i due divorziarono subito dopo, nel 2009. Ma ora sono in ottimi rapporti, tanto che Kerstin, produttrice cinematografica, ha già più volte aiutato Kamala realizzando spot per lei.
Il gossip circolava da anni: il professore californiano Mark Mendlovitz, vicino all’area cospirazionista di quell’Alex Jones condannato a pagare 42 milioni di dollari per aver sostenuto che la strage di bambini nella scuola Sandy Hook del 2012 non è mai avvenuta, aveva più volte tentato di venderla, pur definendo lui stesso la notizia «il segreto peggio mantenuto di Los Angeles». Solo ora ha trovato acquirenti.
La storia era nota pure a Biden, che l’aveva appresa nel corso del “vetting” di Kamala. Ovvero quel processo mirato ad accertare l’idoneità di figure destinate a ruoli pubblici, come appunto i candidati alla presidenza e alla vicepresidenza, durante il quale ogni scheletro nell’armadio, potenzialmente utilizzabile dai rivali, deve essere rivelato. Quel vecchio tradimento non sembrò così dannoso, e Harris fu scelta.
La campagna di Trump lo ha promesso: raccoglierà materiale per danneggiare Kamala. Ma finora, oltre a prendere di mira le posizioni economiche del padre, l’economista Donald Harris, definito “marxista” in certi articoli sprezzanti, rimestare nella vite private della coppia non ha fornito granché. Di sicuro, però, il modo in cui tutto può essere usato per colpire, sta certamente pesando nella scelta del vice che si sta concludendo in queste ore. Non a caso, quel processo solitamente condotto per mesi, che il cambio di candidato ha costretto a svolgere in pochi giorni, è stato affidato a Eric Holder: già ministro della Giustizia ai tempi di Barack Obama. Coi suoi collaboratori ha monitorato background, esperienze e vulnerabilità dei papabili: il governatore del Kentucky Andy Beshear, quello dell’Illinois JB Pritzker, il collega della Pennsylvania Josh Shapiro – dato per favorito dai media – il governatore del Minnesota Tim Walz. Insieme al senatore Mark Kelly dell’Arizona, anche lui nome alto nella lista. E al ministro dei trasporti Pete Buttigieg. L’annuncio arriverà a breve, ma intanto le insinuazioni sui singoli sono già iniziate. È riemersa, per dire, una storia che può danneggiare Shapiro. Un anno fa pagò 295 mila dollari per patteggiare le accuse mosse contro Michaele A. Vereb, uno dei suoi più stretti collaboratori, da un’altra dipendente: per certe avance sessuali moleste e le dure critiche cui era stata sottoposta dopo averlo rifiutato. Vereb, descritto da Shapiro come “grande lavoratore” mantenne l’incarico altri sei mesi. Dimettendosi solo quando la denuncia fu resa pubblica.