il Giornale, 4 agosto 2024
Intervista a Pietro Labriola
È passato solo un mese dalla cessione della rete al fondo Kkr, e come prevedibile al quinto piano di Via Negri a Milano, dove ha sede Tim, si respira un’aria molto diversa. Senza dubbio più rilassata, anche se gli uffici che superiamo per arrivare a quello dell’amministratore delegato brulicano di figure in maniche di camicia che discettano tra loro, chini su grafici e schemi+ societari. Puntualissimo, Pietro Labriola (...)
(...) ci riceve sulla porta invitandoci a sedere a un tavolo dove è già schierato l’intero staff della comunicazione: capiamo subito che l’intervista non sarà breve, lui ha voglia di parlare, di raccontare questi tre anni che per la società non sono stati quel che si dice una passeggiata di salute. «Quando siamo arrivati a fine 2021 – attacca senza preamboli – questa azienda aveva alle spalle tre profit warning, due downgrade, un debito di più di 9 miliardi da rinegoziare in 2 anni e mezzo oltre a dover pagare 1,7 miliardi per le frequenze 5G: il tutto con un Ebitda a -15% e un indebitamento lordo monstre. Non stiamo parlando di trent’anni fa, parliamo di due anni fa. Perdonate la premessa, ma spesso la gente dimentica da dove veniamo: abbiamo fatto una vera rivoluzione».
E siete diventati una cosa molto diversa. Basta leggere le voci della semestrale che il cda ha approvato da poco, decisamente migliore ma diversa. Labriola, partiamo dall’agenda che vi siete dati. Qual è stato il primo impegno?
«Rifinanziare il debito di oltre 9 miliardi che sarebbe di lì a breve scaduto. E non è stato banale esserci riusciti in mezzo a due guerre, la crisi energetica, l’inflazione alle stelle, i tassi che per noi sono balzati dal 3,7 al 7,5%. Abbiamo poi dovuto pagare 1,7 miliardi per un 5G che fatica a decollare perché è difficile trovare le risorse per gli investimenti. Tutto ciò nel mentre l’intera industria europea delle tlc viveva il momento peggiore».
La seconda mossa?
«Mettere sotto controllo le operations, è così che siamo tornati a recuperare ricavi e margini sul mercato domestico. Ci siamo quindi preoccupati di capire quali fossero le opzioni gestionali e strategiche per dare un futuro di crestita all’azienda. Ma ci siamo subito resi conto che senza ridurre il perimetro difficilmente avremmo potuto sopportare il costo del debito. Così abbiamo provato a smontare e rimontare l’azienda in tutte le sue componenti e alla fine si è convenuto che la modalità migliore era cedere la rete».
Subito è parsa un’eresia, tanto che nessuno credeva che sarebbero arrivate offerte.
«Invece, di offerte ne abbiamo ricevute due. Le abbiamo messe in competizione e abbiamo fatto salire il valore della rete di ben 5 miliardi. Ma la cosa straordinaria è che in sette mesi abbiamo perfezionato la separazione con soddisfazione di tutti. Trovatemi qualcuno che ha fatto un carve out così complesso in soli 200 giorni».
Con la rete avete trasferito al fondo Kkr un bel po’ di debito, la semestrale di Tim informa che a fine giugno il vostro impegno si è così ridotto a 8,1 miliardi. È sostenibile con la nuova tipologia di business di ServiceCo, centrata soprattutto sul consumer?
«Se rispetteremo la nostra guidance, cosa di cui sono convinto, il debito a fine anno sarà ridotto a 7,5 miliardi. È una dimensione che ci mette in linea con i migliori competitor europei e che ci permette di giocare la nostra partita industriale con buone chance di successo. Però devo fare una precisazione».
Prego.
«C’è molta confusione su cosa è ServiceCo. Dentro non c’è solo consumer, anzi è la componente minore, visto che il 70% dell’ebitda-capex è rappresentato per il 30% da Tim Brasile e per il 40% da Tim Enterprise. E poichè il Brasile cresce al ritmo dell’8% e Enterprise del 7%, posso affermare che quel debito è davvero sostenibile».
Una fortuna poter contare sulle performance di Tim Brasile.
«La fortuna ce la siamo costruita in sei anni di duro lavoro. Nel 2015, quando sono arrivato in Brasile, bruciava cassa. Ci sono voluti almeno due anni di sudore e fatica per rimetterla sui binari della redditività. E dopo aver migliorato costantemente le performance, come ad di Tim Brasil ho gestito l’acquisto del quarto operatore locale. Non abbiamo vinto alla lotteria».
Il Brasile da 5 operatori è passato a 3, tutti con bilanci in attivo. Quanto incide questa condizione sul mercato delle tlc locali?
«Incide eccome. Il Brasile è l’esempio perfetto di come non sia vero che la market consolidation vada a danno dei consumatori, non a caso è il Paese con la rete 5G più estesa e innovativa e i prezzi continuano a essere competitivi».
Perciò anche lei critica la scelta europea di allargare a 5 gli operatori tlc in Italia. Del resto, è accertato che è questa la ragione prima della crisi del segmento consumer.
«Confermo. Persino Iliad è alla disperata ricerca di un’acquisizione mentre anch’essa lamenta che 5 competitor sono troppi. Qui c’è un problema di politica industriale, principalmente europea. Debbo riconoscere che sul tema il governo italiano si sta dimostrando molto attento. Se anche Margherita Della Valle (ceo di Vodafone) e Christel Heydemann (ceo di Orange) dicono che è urgente consolidare, e se a loro si uniscono Mario Draghi ed Enrico Letta, una ragione ci sarà».
A che punto è il piano su Tim Consumer, l’area meno esaltante dal punto di vista dei numeri?
«Abbiamo apportato significativi miglioramenti. Per esempio, Tim Vision, che per ora è l’asset principale della nostra strategia di espansione fuori dal business della connettività, è la seconda piattaforma italiana dopo Sky: in tre anni, senza perdere clienti, abbiamo più che raddoppiato il ricavo medio per utente, nel silenzio e senza spendere cifre enormi. Abbiamo recuperato i problemi legati al precedente accordo con Dazn, che ci è costato 540 milioni di accantonamenti. Un buon risultato, ma non basta».
Poi c’è Enterprise. Quando l’avete lanciata, nel 2022, sembrava poco più che un power point. Come siete riusciti ad affermarne il brand così rapidamente e consolidare una crescita del 6%?
«Non c’è nulla di geniale. Se l’attività consumer vive una fase di stagnazione, i servizi per le grandi imprese e la Pa, come il cloud e la cybersicurezza, crescono di forza propria. Sicchè Tim si confronta con due mercati con due dinamiche differenti, e su entrambe fa meglio del mercato. Se il settore consumer fa -1%, Tim si mantiene stabile; se il mondo dei servizi Ict cresce del 4%, Tim cresce del 6%».
Resta il problema del numero dei dipendenti rimasti in ServiceCo. Non sono troppi 16mila?
«Quando si confrontano i nostri dipendenti con i 6-7 mila di Wind, bisognerebbe interrogarsi su quanti dipendenti Wind ha nei servizi alle grandi imprese. Probabilmente zero. Tim ha 5mila dipendenti, ricavi per 3 miliardi e un rapporto fatturato/dipendente di 500mila euro a fronte di 300mila dei peers europei. Se vuoi comparare Tim a Wind e Vodafone, devi togliere dai 16mila di ServiceCo i 5-6 mila di Enterprise. Ne restano 10mila: di questi, altri 3.500 sono gli operatori dei call center che noi manteniamo all’interno. Wind e Vodafone li hanno all’esterno, dunque sono costi che hanno anche loro».
Lei sta dicendo che alla fine i numeri del personale di Tim sono proporzionalmente in linea con quelli di Wind e Vodafone?
«Esattamente. Con una differenza fondamentale. La nostra quota di mercato sul mobile è in linea con quella di Vodafone e Wind, mentre quella sul fisso è quasi tre volte. Paradossalmente, Tim dovrebbe perciò avere più dipendenti».
Però è oggettivo il fatto che Iliad ha solo 2mila dipendenti.
«Vero, ma Iliad vanta una quota di mercato del 14% del mobile mentre non ha il fisso. Se Iliad avesse il fisso e l’enterprise, dovrebbe assumere una valanga di dipendenti».
Il che fa presumere che la riduzione del numero degli operatori attraverso un consolidamento non è il solo problema. Pensa a un cambio delle regole?
«Penso a regole uguali per tutti, che tutelino consumatori e mercato. Quando ero più giovane le tlc erano un mercato a compartimenti stagni: chi vendeva telefonia, vendeva telefonia punto; e chi vendeva energia, faceva solo quello. Ora chi fa energia vende anche tlc. Ma chi controlla che non ci siano sussidi incrociati, che non vendano un servizio a bassa marginalità, come la connettività, senza guadagnarci per fare invece alti profitti con l’energia? Questa competizione selvaggia contribuisce a distruggere ulteriormente il mercato delle tlc. È quindi necessario ripensare alle regole. E ciò vale anche per i rapporti con i giganti del tech».
Si spieghi meglio, faccia qualche esempio.
«Offro il più banale. Quando un Over the top, un soggetto come Netflix propone un film a 8k, per cui si fa pagare 5 euro in più, ciò comporta anche una crescita del volume di dati. E questa crescita va supportata con costi che noi operatori dobbiamo sostenere. Se però io chiedo ai miei clienti 1 euro in più al mese, ovvero 3 cent al giorno, apriti cielo. In Italia abbiamo i prezzi più bassi al mondo, dopo Israele. Ma se non facciamo profitti, come potremo investire sul 5G, o sul trasporto dati, e migliorare la qualità del servizio?».
In altre parole, lei sta suggerendo di cancellare la cosiddetta net neutrality. Abbiamo capito bene?
«Sto parlando di regole uguali per tutti. Negli Stati Uniti è stata rivista, in Brasile ci stanno lavorando. Anche nel Regno Unito ne stanno parlando. Penso che nemmeno in Europa dovrebbe essere un tabù. Prima o poi dovremo considerare anche il dumping, questo sconosciuto nel codice italiano. È giunto il tempo di fare un restart nel mondo delle tlc in Europa e in Italia».
Lei dipinge una situazione di forte rilancio di Tim. E del resto le tre principali agenzie di rating hanno formulato un upgrade che ha riportato la società alla stima del 2020. Si è dato una spiegazione del perché la Borsa penalizza il titolo in modo tanto pervicace?
«Non siamo noi a definire il mercato, che risponde a determinate logiche finanziarie e non necessariamente industriali. Il mio compito come amministratore delegato è mantenere ciò che prometto. Certo l’andamento di Borsa non riflette i progressi dell’azienda. Osservo però che sul fronte dei bond si registra tutt’altro trend, il che vuol dire che si comincia a capire ciò che stiamo facendo. Del resto è solo un mese che si è completata la prima parte del piano con la cessione della rete».
Però gli attacchi speculativi sul titolo hanno ormai cadenza quasi quotidiana. Per una società con un ruolo tanto delicato come Tim, anche dopo la cessione della rete, non è forse giunto il tempo di incoraggiare l’arrivo di un azionista forte che abbia a cuore anche la stabilità del titolo?
«Il nostro compito è di lavorare per gestire l’azienda nel modo migliore e più efficiente possibile, per rispettare le promesse e per centrare gli obiettivi. In questi primi due anni e mezzo lo abbiamo fatto e vogliamo proseguire su questa strada, riportando Tim a una corretta redditività. Se lo faremo, alla fine il mercato ci seguirà. Il resto è materia che riguarda gli azionisti».
C’è chi in questi giorni ha polemizzato sul fatto che la cessione della rete costerà alla nuova Tim non meno di 2 miliardi l’anno per l’affitto. Sicchè in 10 anni la società sarà chiamata a spendere quanto ha ricavato dalla sua cessione.
«Una ricostruzione miope e grossolana. Dei 2 miliardi che spenderemo per l’affitto della rete, circa 700 milioni sono il costo dell’energia che Tim avrebbe dovuto sobbarcarsi comunque se avesse mantenuto la rete. Inoltre, senza la cessione a Kkr avremmo dovuto investire non meno di 10 miliardi nei prossimi 5 anni per il potenziamento della struttura in fibra. Per non dire del personale ceduto insieme alla rete, che porta di per sè minori costi per 1 miliardo; o dei minori oneri finanziari legati all’abbattimento del debito, più di 800 milioni l’anno. E mi fermo qui, perchè potrei parlare a lungo di come quella scelta ci permetterà nuove strategie industriali e commerciali».
A proposito di Enterprise, sembra di capire che eventuali acquisizioni passeranno proprio di qui.
«Stiamo valutando quali opportunità di crescita percorrere senza bruciare valore. Deve essere qualcosa di sinergico. Magari anche sperimentando nuovi modelli di acquisizione. Per esempio diventando l’acceleratore della crescita di società piccole e medie, vendendo i loro servizi alla nostra base clienti in cambio di una quota del capitale che nel tempo può crescere al raggiungimento di certi risultati. Così diventa anche più agevole incorporare i loro multipli. L’unica cosa che questo mondo non ti permette è appassionarti a un solo modello, un solo schema e perpetuarlo nel tempo».
Conferma che per Sparkle e Inwit i tempi per la cessione sono maturi?
«Siamo a buon punto, dovremmo riuscire a chiudere entrambe le trattative entro l’anno».
C’è poi il tema degli earnout sulle nozze, che dovrebbero avvenire entro il 2026, tra Open Fiber e NetCo sulle quali però di tanto in tanto sorgono dubbi. Il suo pensiero?
«Se guardo i numeri, posso dire di ritenere che in Italia non ci sia spazio per due reti, e che quindi è alto l’interesse reciproco a far convergere aree bianche e grigie. Quanto agli earnout, non è necessaria una fusione tra le due società, bastano anche partnership di altro tipo».
A quanto ammonta esattamente il totale dei benefici che Tim ricaverà tra cessioni, earnout e restituzione del canone di concessione?
«Siamo grosso modo nell’intorno di 5 miliardi, che possiamo destinare a investimenti per la crescita o anche a forme di remunerazione per i soci. Avendo un’idea più chiara dello sviluppo industriale, con il piano che presenteremo a inizio 2025 potremo dare indicazioni più precise su un ritorno al dividendo».
Si parla anche di accorpamento delle azioni oltre che di conversione delle risparmio in ordinarie. Quanto è realistico il progetto?
«Chiunque assuma la guida di Tim si trova a dover considerare questi elementi. In Italia sono rimaste tre le società con azioni di risparmio, la conversione è perciò un’opzione da valutare, naturalmente nel rispetto di tutti gli azionisti».
Parlando di consolidamento del settore, se si dovessero creare le condizioni in quali direzioni si orienterebbe Tim? Poste Mobile o Iliad?
«Se parliamo in astratto, entrambe le opzioni sono possibili».
Un’ultima domanda. Quali sono i rapporti attuali con Vivendi?
«Il dialogo con Vivendi è sempre aperto, nel rispetto delle regole di mercato, della deontologia professionale e dell’etica. Impensabile che non ci sia una interlocuzione con il maggiore azionista».
Marcello Astorri
Osvaldo De Paolini