La Stampa, 4 agosto 2024
Intervista a Marco Revelli
Marco, come ti definiresti? «Mi riesce difficile raccontarmi come individuo. È complicato per tutti noi che avevamo vent’anni nel Sessantotto». Preferisci definirti come generazione? «Eh, forse sì, è più calzante. Una generazione che ha avuto una fortuna rara: avere la possibilità di immaginare di cambiare il mondo. Siamo stati giovani in una finestra temporale irripetibile, quella degli Anni Sessanta e Settanta. Con i nostri gesti liberatori e i nostri errori, anche gravi. Ma è inutile girarci intorno: noi siamo la generazione che è cresciuta nell’epoca della morte di dio. Quando nulla poteva essere più come prima». Marco Revelli parla nella biblioteca di Piero Gobetti di Torino, nel centro di cui è presidente: «Questo – spiega – è stato il baricentro dell’antifascismo torinese». Si considera «fortunato in una generazione fortunata». Non ha più vent’anni da mezzo secolo ma ha mantenuto il gusto dell’utopia e della profanazione: è un iconoclasta costruttivo. Perché fortunato? «Appena laureato mi chiamò Franco Antonicelli per curare gli annali del suo centro. Ho avuto come maestro Norberto Bobbio con cui mi confrontavo anche nei momenti difficili. Non posso dire che mi sia andata male».
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Il primo maestro è stato naturalmente Nuto, suo padre. Com’era Nuto Revelli visto in famiglia? «Ho sempre pensato che mio padre abbia vissuto due vite. Il Nuto ufficiale degli alpini che voleva andare in guerra a combattere per il Re (Mussolini per lui non contava, nel Regio Esercito era considerato un parvenu), il Nuto che chiede di anticipare la partenza per il fronte: quel Nuto è morto in Russia. Di fronte ai cadaveri dei partigiani russi impiccati dai tedeschi, alle colonne di ebrei con la stella gialla costretti a lavorare ai bordi della ferrovia. Di fronte alla corruzione che regnava nelle retrovie, dove finì dopo essere stato ferito. Gente che faceva la cresta sui rifornimenti mentre al fronte si moriva congelati e senza scarpe. In quei momenti, raccontava, ho maledetto il duce, il Re, l’esercito, la patria. In quei momenti lui ha ucciso dio. Ben prima della nostra generazione».
E poi c’è il secondo Nuto, quello che hai conosciuto tu: «Quello che torna dalla Russia e va a combattere con i partigiani, il Nuto antifascista della Resistenza. E l’ufficiale che si sente responsabile dei suoi uomini anche da morti: che fa personalmente il giro dei familiari e delle vedove a raccontare gli ultimi momenti di un figlio, un padre, un marito. Perché la responsabilità non muore mai». Non facile avere un padre tanto importante e, forse, ingombrante: «Diciamo che, a differenza di molti della mia generazione, non ho potuto uccidere il padre. Il mio non era uccidibile». Ma discutevate: «Sì, lui era lombardiano, anche se non era iscritto al Psi. Io ero su posizioni nenniane». Quindi più a destra… «Si ero a destra di mio padre. Ma eravamo due mosche bianche nella Cuneo democristiana. Da piccolo, la domenica mi mandava a comperare i giornali: La Stampa e l’Avanti. Io nascondevo l’Avanti in mezzo alla Stampaper poter continuare a giocare con i miei amici, perché non mi tagliassero fuori». Democristiana ma profondamente antifascista. Uno dei misteri della provincia di Cuneo: «Un mistero fino a un certo punto. La Cuneense aveva 18 mila uomini. Dalla Russia ne tornarono 1. 600. Il serbatoio di dolore che si lasciò dietro quella tragedia spiega largamente l’antifascismo delle mie parti. A Cuneo, Almirante non riuscì mai a parlare. L’unica volta che ci provò, il sindaco della Dc gli tirò secchiate d’acqua dalla finestra del Municipio».
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Ma è a Torino che Marco e la sua generazione uccidono dio. Nel’67, a Palazzo Campana, allora sede delle facoltà umanistiche, una delle prime università occupate nel Sessantotto italiano. «Rompere la gerarchia e i riti dell’Università era davvero come uccidere dio. L’aula magna che noi occupammo era circondata da un’aura particolare, come fosse una chiesa. Tanto che ci stupimmo moltissimo del fatto che, in reazione alla nostra occupazione, la polizia entrasse nell’edificio. Non era concepibile, un sacrilegio». Perché profanare quel tempio? «Perché non aveva più giustificazione. Gli esami condotti con un sistema arcaico, in cui non contava solo il merito ma anche come andavi vestito, quali erano gli umori del professore quel mattino, se utilizzavi i pattini di feltro per non fare rumore sul parquet. Fisime dell’Ottocento». Quale fu il gesto più iconoclasta? «Nell’aula magna c’era la famosa scrivania del rettore Mario Allara. Una specie di altare. Noi la utilizzammo per bloccare una porta. Una mattina il rettore arrivò. Guido Viale salì con gli scarponi sulla scrivania e gli urlò: “Tu torturatore, vergognati”. Gli aveva dato del “tu”. Viale continuava a inveire contro il rettore. Fu in quel momento che intervenne il bidello, che era veneto: “Ragazzi, lasciatelo stare. Non vedete che è un povero vecio?”. Fu la ciliegina sulla torta, l’involontaria chiusura del cerchio nella distruzione della gerarchia universitaria». Una esagerazione? «Forse. Ma da quel giorno l’università diventò un luogo normale. Perse la sua sacralità. Un po’ ci rimettemmo anche noi che di quella sacralità, come studenti, godevamo indirettamente».
Nel chiuso di quell’aula magna si realizzava la vostra utopia, una specie di società ideale quasi incontaminata, come la Pennsylvania per i quaccheri: «In un certo senso era così. Organizzavamo i contro-corsi universitari, vivevamo i rapporti tra di noi come pensavamo avrebbero dovuto essere nella società». Una delle caratteristiche di quella rivoluzione fu la rottura dei vecchi schemi nei rapporti tra i sessi: «Certo, se penso che noi eravamo entrati in una scuola con le classi divise in maschi e femmine, il cambio era notevole. Non solo per le minigonne: soprattutto per la libertà nei rapporti. Che metteva in discussione qualche certezza di noi maschi». Ti ha messo in difficoltà? «Era giusto che ciascuno fosse libero. Certo, per uno come me che è tendenzialmente monogamo fu un cambio abbastanza significativo. Fu un’altalena emozionale, ogni giorno tutto poteva cambiare…».
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Quando finì quell’utopia? Quando hai capito che quel sogno non era così facile da realizzare, che c’era, come si direbbe oggi, chi remava contro? «Beh quasi subito arrivò piazza Fontana con i depistaggi che seguirono. La strategia della tensione e le trame dei servizi deviati erano la dimostrazione che non sarebbe stato così semplice cambiare la società nel senso che volevamo. Poi arrivò la stagione del terrorismo di sinistra. Sul piano sociale arrivò la sconfitta alla Fiat». Perché si arrivò al terrorismo di sinistra? «C’è stato un momento in cui lo sguardo di alcuni è cambiato. Dico proprio fisicamente. Erano persone che pensavano che non saremmo riusciti ad ottenere abbastanza, che ci voleva un salto di qualità ulteriore. Ricordo lo sguardo di Roberto Sandalo: l’atteggiamento di un nazista, di chi dice: “Se mi serve, decido io della tua vita”». Colpirne uno per educarne cento: «Il momento in cui l’idea della militanza, per la quale ho il massimo rispetto, è diventata atteggiamento militare. Una torsione di significato deleteria». Non l’avete vista arrivare questa deriva? E se sì, perché non l’avete fermata? «I pericoli di quella deriva sono stati uno dei motivi per cui Lotta Continua si sciolse di fatto a Rimini nel 1976». Non fu però sufficiente a fermare la nascita del partito armato: «Luca Rastello, che era della generazione successiva alla nostra, ci accusava di esserci ritirati dopo aver consegnato ai più giovani il materiale incandescente dei nostri sogni di cambiamento in un momento in cui nella società quel cambiamento era diventato impossibile». Aveva ragione? «Credo di sì».
Poi è arrivata l’ultima disillusione, la sconfitta alla Fiat: «Non è stata l’ultima. L’ultima è stata la macelleria messicana del 2001 praticata dalla polizia sul lungomare di Genova contro il movimento no-global. Ero scappato sulla collina di Albaro e ho visto una scena cilena». La Fiat invece? «La sconfitta dei 35 giorni con la marcia dei 40 mila fu la fine di un autentico movimento di liberazione dalle gerarchie in una fabbrica-monstre che allora aveva più addetti di quanti abitanti avesse la mia città, Cuneo». Una doccia fredda per la sinistra italiana. Ci fu chi andò lontano da Torino, chi entrò in analisi. Come reagì Marco Revelli? «Scrissi una lunga lettera a Norberto Bobbio chiedendogli consiglio e annunciando che da quel momento sarei passato dalla militanza all’impegno e allo studio». Studiare aiuta in quelle circostanze? «Per me studiare significò capire meglio come si era giunti a quell’esito e capire anche che cosa si era modificato con il post-fordismo».
Tutte le stagioni sono finite. Tutto è ormai alle spalle. I sogni di cambiamento sono oggi quelli dei movimenti di destra che protestano nelle campagne degli Stati Uniti e in Europa contro i governi della globalizzazione: «Questo si spiega. È nelle campagne, nelle zone rurali che la morte di dio lascia il vuoto. Nelle città c’è sempre la possibilità di riempire il nulla con iniziative, la nascita di movimenti. Nelle campagne no. È la distruzione di un ordine senza possibilità di sostituirlo. Questo spiega perché in Germania né Berlino né Francoforte furono naziste come le campagne». Il cerchio sembra chiudersi: la morte di dio annunciata da Nietzsche nei suoi testi, scritti a duecento metri da Palazzo Campana, si risolve nel nichilismo: «Noi avevamo sognato di utilizzare quel cambiamento per un salto in avanti in positivo. Ci siamo riusciti solo in parte. Ma ci abbiamo provato».